di Stefano Bartoli
Il racconto di Irene Campinoti, che mi è pervenuto, e il proficuo impegno di Andrea Mancini e di tutti gli altri della “Compagnia” per la prossima festività di S. Rocco mi ha tuffato in un mondo di ricorsi che coprono il periodo che intercorre fra i primi anni sessanta e i settanta, un arco temporale di circa quindici anni, nei quali ho visto, ed anche partecipato, a diverse edizioni del Palio.
Io abitavo nello Sciòa, il gruppo di Contrade che era solito ospitare il Palio, in Piazza Bonaparte, anche se ci sono state delle edizioni nelle quali il palco è stato montato in Piazza del Duomo.
La mia Contrada era S. Stefano, ricordo la vicina S. Andrea, nella quale viveva mio nonno e alcuni zii e zie, poi Castelvecchio, Pancole, Poggighisi, Colline. La memoria mi tradisce e non riesco ad andare oltre. La parte dei cittadini che viveva “fuori” dallo Scioa faceva parte del gruppo delle Contrade di Fuoriporta, cioè nei quartieri che erano sorti di là dalle mura del vecchio castello fortificato, fino alla Contrada più lontana dal centro, le Colline.
Mattatore delle edizioni e membro del Comitato Organizzatore era il Maestro Buggiani, vivace presentatore, entusiasta e chiacchierone, che, dal palco alternava grandi sorrisi a simpatiche presentazioni e faceva da giudice arbitro durante le varie gare di abilità.
Ricordo i confronti di tiro alla fune fra le due squadre, con i rappresentanti di Fuoriporta in canottiera blu, da metalmeccanici, e gli sciòani in canottiera bianca, da panettieri o muratori. Anche noi, nei primi tornei dei bar dei ragazzini, di pallacanestro, ci distinguevamo con le stesse maglie, la terza squadra giocava in canottiera rossa e i numeri erano cuciti dalle mamme sul dorso di ogni maglia.
Fra i piacevoli momenti che mi tornano alla memoria, c’è la vittoria di Silberio Chiti, lo squalo, alla gara di abilità che, per primo, risolse un indovinello proposto dal Comitato Organizzatore e si portò a casa un piccolo corno d’oro.
E divertente fu l’anno che debutto il gioco del maialino, vinto dall’abile Claudio Marchetti.
In un piccolo recinto, circondato dalla folla, era stato liberato un maialino da latte, che aveva il corpo tutto unto con la sugna e, il partecipante, nudo fino alla cintola, con il torace, le braccia e le mani coperte di sugna doveva catturarlo. Non era per nulla facile riuscire nell’impresa e molti partecipanti sbuffarono in lungo e in largo nelle vane corse dietro al maiale, sempre più impaurito dal chiassoso tifo del pubblico. Solo Claudio, determinato e convinto, riuscì abilmente ad afferrarlo per gli zoccoli e le gambe posteriori, sollevarlo da terra e stringerlo, per un momento, al petto. Ciò bastava per vincere la gara e portarsi a casa il maiale.
Palio di San Rocco 2009, Fotografia gentilmente concessa dalla
Filarmonica G. Verdi di San Miniato
Il Palio vero, che assegnava il Trofeo, la statua di S. Rocco, era assegnato al corridore che vinceva le corse fra “insaccati”. Tre batterie di tre giovanotti, imballati fino alla cintola in sacchi di iuta, che saltellavano per tutto il percorso che partiva dal palco centrale, finiva l’andata al punto di svolta fissato e ritorno fino a toccare il palco. La finale fra i primi arrivati nelle tre batterie consacrava il vincitore.
Ricordo la vittoria di Beppe Baglioni, di S. Andrea, che aveva uno stile di corsa singolare. Tutti saltavano su due piedi, Beppe invece correva a zoppetto, su di un piede solo e teneva l’altra gamba sempre alzata da terra. Durante le Sue prove pareva di vederlo volare rispetto ai Suoi avversari che apparivano molto più goffi.
Io partecipai al Palio che si corse in Piazza del Duomo. Io corsi a perdifiato, saltando su due piedi e tenendo la balla con le mani strette all’altezza dei fianchi. Ero in testa nella corsa finale, non ci credevo, provai a voltarmi per misurare il vantaggio e questo mi vece inciampare e perdere il ritmo.In prossimità del traguardo mi superò Raffaele Mori Taddei, morsino, che vinse meritatamente il Suo Palio per fuoriporta. A me rimase solo la ghiaia e i sassi della piazza che mi si erano conficcati nei palmi delle mani.
Altri giochi classici consistevano nel far gareggiare i bambini fa Loro nel tentativo di saltare, in corsa, su di un cocomero appoggiato sulle assi di legno del palco per spaccarlo, centrandolo rigorosamente con le mele del posteriore. Quando andavi fuori bersaglio erano lacrime, un po’ per la piccola brutta figura, un po’ per le risate della folla, ma anche per il dolo re che sentivi, proprio sulle mele arrossate.
Ricordo un bambino molto piccolo, determinato, il salto si finì con una carezza sulla buccia del cocomero, che scivolò via, rotolando un po’ più lontano e il giovanissimo, determinato, che si rialza in fretta e furia per andare a schiantare il cocomero sedendoci sopra. Applausi divertiti dalla folla e premio “particolare” concesso dal giudice arbitro proprio per il grande impegno e la forte volontà dimostrata.
S. Rocco era anche canzoni, musica dal vivo e gara culinaria fra le donne del paese. Nel giardino di Casa Nostra si apparecchiava e si serviva la cena, il pranzo lo potevi fare ordinando le portate che, una volta acquistate, potevi portare a casa e consumare in famiglia.
Il menù classico prevedeva un primo a base di zuppa di pane con verdure, in particolare cavolo e fagioli.
Il secondo erano sempre chiocciole e il dessert cocomero fresco. La gara serale consisteva nel premiare chi avesse cucinato la migliore zuppa. Ricordo le lunghe discussioni fra i molti se premiare ricette tradizionali fatte impiegando solo pane raffermo e verdure o piatti un po’ più innovativi che vedevano cuocere un pezzo di cotenna di prosciutto insieme agli altri ingredienti. Il piatto così cucinato era sicuramente più saporito ma con l’evidente aggiunta di carne, per alcuni un’eresia.
Io assaggiavo il più possibile e aiutavo anche mia nonna nella ricerca degli ingredienti. Lei preferiva i sapori leggeri, gustosi ma non troppo saporiti. A ogni Sua zuppa aggiungeva alcuni ingredienti segreti. Solo uno lo conosceva perché andavo sempre a chiedere un prestito alla vicina. Qualche rametto di pepolino, una piantina che la vicina faceva crescere nel Suo orto e della quale non regalava mai le radici, solo rametti.
Cercavo anche le chiocciole, di solito lungo i ciglioni che circondano la Rocca, tutte le volte che una pioggerella bagnava il colle e ne favoriva l’uscita dai Loro ripari fatti fra le radici degli olivi del Donati e del Suo contadino. A me piacevano le grandi chiocciole dal guscio marrone scuro, striato, i martinacci, mio padre preferiva le piccole chioccioline bianche, dal sapore più delicato. Appena depositavo il raccolto nell’ingresso di casa mia nonna le copriva con un corbello e, per una decina di giorni aspettavamo pazientemente che spurgassero. Poi mia madre iniziava a lavarle in grandi catini di acqua con l’aggiunta di un po’ di aceto, sceglieva con cura quelle da buttare distinguendole fra quelle da cuocere e, infine, entrava di nuovo in azione la nonna che le cuoceva, a lungo, in un grande tegame in mezzo ad un sugo fatto con prezzemolo, cipolla, carota, pomodoro e qualche spruzzatina di peperoncino. Il contenuto del tegame bolliva diverse ore, a fuoco molto basso. La nonna o la mamma scoperchiando spesso il tegame, e rimestavano il tutto con un mestolo di legno, fino a quando l’acqua, con la quale avevano allungato l’olio, si fosse ritirata dal bordo al fondo del tegame.
Palio di San Rocco 2009, Fotografia gentilmente concessa dalla
Filarmonica G. Verdi di San Miniato
San Rocco era la festa di coloro che restavano a casa, senza andare in villeggiatura. All’epoca i bassi redditi consentivano a pochi di andare in vacanza per lunghi periodi. Io, al massimo, andavo da mattina a sera con qualcuno dei miei zii. Alcune famiglie si dividevano e la madre con i figli piccoli soggiornava al mare, il padre restava a casa per lavorare. Con le famiglie così temporaneamente separate S. Rocco diventava un’occasione per scherzare sulle “corna” del piatto preferito, le chiocciole, e su chi aveva qualche giorno di libertà lontano dal rispettivo coniuge. S’ironizzava anche Sui premi a forma di “corno” destinati ai potenziali “becchi”. I meno giovani ricorderanno che, da poco, era uscito nelle sale il film di Marilyn sulle mogli in vacanza. Sono stati momenti allegri e spensierati della mia gioventù vissuti in un’epoca semplice e, forse, più vera. La crescita economica della seconda metà degli anni settanta e il conseguente miglioramento dei redditi ci hanno portato anche alle prime vacanze di massa e il paese, di agosto, si è presentato sempre più vuoto.
Il Comitato che, negli anni storici, si riuniva al Circolino di via Paolo Maioli ha continuato a darsi da fare, a invitare complessi e cantanti, a organizzare feste musicali davanti alla Casa di Riposo per regalare una serata diversa a tutti gli ospiti e ai cittadini rimasti in paese però e venuto sempre più a mancare il consistente flusso di pubblico che vedevo durante la mia gioventù. L’ultima edizione che ho visto era stata presentata da Vasco Matteucci, Hitchens, divenuto poi un bravo e noto allenatore di calcio.
Vasco riuscì a condurre una serata piacevole con grande perizia, la Sua intelligenza, al Sua allegria e la Sua saggezza seppero sopperire alla mancanza di esperienza e ciò dette smalto alla manifestazione.
Ben vengano nuove e diverse iniziative che siano fonte di aggregazione e di sano divertimento, momenti d’incontro di persone, famiglie provenienti da quartieri diversi oppure da paesi e città, più o meno vicini, perché continui per tutti la possibilità di condividere l’allegra e cordiale ospitalità che, da sempre, ha contraddistinto gli abitanti della nostra piccola città.