a cura di Francesco
Fiumalbi
Il Repertorio del
Tribunale Ecclesiastico Diocesano di San Miniato – pubblicato nel volume Processi
informativi ed atti criminali dal 1622 al 1707, a cura di L. Tognetti,
Accademia degli Euteleti, San Miniato, 1994 – ci offre un preciso spaccato
della vita sociale del XVII secolo. La storia proposta in questa pagina è ispirata
proprio dagli atti processuali ed in particolare dal procedimento n. 8 del
1637, a p. 64 del libro. In fondo al testo ci sono le poche parole del
repertorio. Una storia d’amore d’altri tempi, con alcuni elementi curiosi, ma
soprattutto con lieto fine.
Giovanni Zambelli aveva
superato da poco la trentina e per l’epoca era un uomo più che maturo. Non aveva
avuto una vita facile, i genitori erano morti di malattia quando era ancora un
bambino. I parenti più vicini abitavano lontano e non potevano prendersi cura
di lui. Per questo, fin da giovanissimo, si era sempre dato da fare per guadagnarsi
un tozzo di pane: aiutava i frati di San Francesco a fare l’orto, dava una mano
ai coloni della mensa vescovile durante la mietitura e durante la vendemmia.
Poi crescendo imparò a trattare con gli animali, prima a mungere le vacche e
poi a sellare i cavalli nelle proprietà dei Morali. Piano piano, cominciò anche a
guidare le carrozze. Fu la sua fortuna, perché quando Mons. Alessandro Strozzi fu
destinato alla Diocesi di San Miniato, aveva bisogno di un cocchiere e, tramite
un canonico di casa dei Morali, si propose al prelato. Fu messo alla prova
portando il Vicario in visita a Santa Maria a Monte. Si comportò bene e il Vescovo
lo assunse come “cocchiere”.
Tutte le sere, prima
di ritirarsi nella sua stanzetta, faceva il giro della stalla, che si trovava
precisamente dove ora c’è un negozio. Verificava che al cavallo non mancasse il
fieno e l’acqua. Poi spalava il letame che l’indomani avrebbe preso il
contadino che riforniva il vescovado, per farne dell’ottimo concime. Quindi passava dalla rimessa, proprio dove oggi parcheggia la macchina il Vescovo. Spolverava
la carrozza perché se l’indomani Mons. Strozzi diceva di muoversi, tutto doveva
essere pronto. E così, ogni sera, mentre passava dalla piazza, in quel breve
tragitto dalla stalla alla rimessa, spesso incrociava lo sguardo di lei.
Lei si chiamava
Domenica Scali, aveva quasi trent’anni e abitava a pigione in una stanza di un
modesto casamento affacciato sulla piazza della Cittadella, proprio davanti al
palazzo vescovile. Il Seminario non c’era – sarebbe stato costruito dal Vescovo
Poggi all’inizio del ‘700 – e la piazza era contornata da numerose abitazioni.
Domenica era vedova già da alcuni anni. Si era sposata giovanissima, ma il marito
era morto di peste nel 1630. Non avevano avuto il tempo di avere figli e solo
per caso non si era ammalata anche lei. Si guadagnava da vivere facendo qualche
rammendo per i preti. Un giorno, riportando alla perpetua del Vescovo la
tovaglia dell’altar maggiore della Cattedrale che aveva sistemato, conobbe l’uomo che
si aggirava per le stalle dell’episcopio.
Giovanni, dandosi un
po’ di arie, si presentò come il cocchiere di sua Eminenza Reverendissima. A Domenica, parve comunque simpatico. Umile e dimessa, nonostante il viso seminascosto dal velo nero, rispose con la dolcezza
del suo sguardo. Si piacquero subito.
Ogni sera si rinnovava
l’appuntamento. Lui passava dalla stalla alla rimessa e lei si faceva trovare
alla finestra. Un saluto fugace e via, fino alla sera successiva. Poi Giovanni
cominciò a portarle alcuni piccoli oggetti non più utilizzati in episcopio. Un
vaso incrinato, un cucchiaio piegato, un cesto sfilacciato. Tutta roba modesta,
ma che, in un mondo poverissimo, potevano tornare utili e che
Domenica trovava la mattina sul davanzale della finestra.
Un bel giorno,
Domenica non comparve più alla finestra. Giovanni rimase sorpreso da questo
appuntamento perduto. La prima sera non se ne fece, era già capitato altre volte
che lei fosse chiamata dalla padrona di casa a fare delle faccende. La seconda
sera cominciò a preoccuparsi, forse poteva essersi ammalata. Poi, dopo più di
una settimana, la vide mentre andava a fare delle commissioni in giro per San
Miniato. Non ci vide più. Quella sera Domenica
aveva lasciato la finestra socchiusa e lui ne approfittò per introdursi all’interno
dell’abitazione. Quando lei lo vide, lì nella sua cucina, emise un urlo talmente
forte che si svegliò anche il Vescovo, che nel frattempo era andato a dormire nel
suo appartamento. I vicini si precipitarono fuori e la padrona di casa prese la
scopa. Con tutta la sua forza, cominciò a colpire Giovanni che fu costretto a scappare
in piazza.
Tutti videro la scena.
Come poteva giustificarsi Giovanni dell’accaduto? Rischiava grosso, perché
poteva anche essere accusato di aver tentato violenza nei confronti della
povera vedova indifesa. Arrivarono gli uomini del Bargello. Presero Giovanni e di forza
lo condussero nella cella ricavata al piano terreno della torretta. Si trattava
di una sorta di “camera di sicurezza” che esiste ancora oggi, all’interno della
piccola torre all’angolo del Miravalle. Passò la notte in quell’anfratto umido
e buio. La mattina, monsignor Vescovo, pretese che il suo cocchiere venisse
rilasciato sulla sua parola e il Vicario, il cui ruolo gli assegnava anche compiti di polizia, acconsentì.
Portato in episcopio,
Mons. Alessandro Strozzi, volle capire come stavano le cose. Giovanni gli
raccontò tutto, di come aveva conosciuto Domenica e delle piccole attenzioni
che si rivolgevano. Poi la preoccupazione perché lei non si faceva più vedere:
che avesse un altro uomo?
Impietosito dalla storia
di Giovanni, del suo fidato cocchiere, sempre ligio al suo lavoro, il Vescovo
fece chiamare Domenica. Lei confermò quanto affermato da lui: i due, a modo
loro e nel massimo rispetto, si “frequentavano”. Poi lei si era stufata perché
lui era un inconcludente. Erano passati mesi e sapeva solo farle trovare
qualche rottame sul davanzale della finestra. Se lui ci avesse tenuto davvero, avrebbe
dovuto inventarsi qualcosa. E così aveva fatto, effettivamente, ma si era
ricoperto di ridicolo di fronte a tutta la città.
Il Vescovo capì che se
non ci metteva una pezza lui, i due non avrebbero compicciato nulla. Con fare
risoluto chiese al suo cocchiere: «Giovanni, ma ancora giochi con le
donne? Hai più di trent’anni, non ti sembrerebbe arrivato il momento di mettere
la testa a posto e fare una famiglia?». Giovanni fece un cenno di assenso
col capo. Poi si rivolse a lei: «Domenica, sei vedova già da molti
anni e vivi in una condizione difficile. Che ne diresti di avere al tuo fianco
un uomo che ti voglia bene?» Lei annuì. Il Monsignore guardò
entrambi ed esclamò: «La soluzione, per tutti e due, è un bel matrimonio! »Giovanni e Domenica si guardarono negli occhi e, all’unisono, esclamarono: «Si!»
Il giorno dopo, in
Duomo, Giovanni e Domenica furono uniti in matrimonio dal Vescovo. E vissero
felici e contenti, o almeno così ci piace immaginare.
Chiaramente, la narrazione è di fantasia. Il
repertorio del Tribunale è estremamente sintetico e povero di dettagli: Giovanni
Zambelli, cocchiere del Vescovo, ha una relazione con la vedova Domenica Scali.
A seguito di un litigio per gelosia entra in casa della donna e si prende tutto
ciò che le aveva regalato. Viene denunciato, ma alla fine tutto si risolve col
matrimonio.
Fiori d'arancio