a
cura di Francesco Fiumalbi
Indice
del post:
PREMESSA
LA
COMMISSIONE D'INCHIESTA
LE
CONCLUSIONI DEL GIUDICE GIANNATTASIO
LA
“RELAZIONE” NELLA STORIOGRAFIA
IL
TESTO DELLA “RELAZIONE GIANNATTASIO”
PREMESSA
In
questo post è proposta la trascrizione di un documento molto
importante: la cosiddetta “Relazione Giannattasio” inerente la
Strage del Duomo di San Miniato, avvenuta la mattina di sabato 22
luglio 1944. La Relazione, in originale con la firma autografa del
Giudice Carlo Giannattasio, è conservata presso l'Archivio Storico
del Comune di San Miniato ed già nota al mondo degli studiosi. Fu
pubblicata per la prima volta sulla Miscellanea Storica della
Valdelsa n. 189/197 (LXXIV-LXXVI, 1968-1970, pp. 270-279) e poi
riproposta in M. Battini e P. Pezzino, Guerra
ai Civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944,
Saggi Marsilio, Venezia, 1997, pp. 374-381.
Di fatto la “Relazione Giannattasio” fu l'unico documento pubblico sull'eccidio del 22 luglio 1944, avente caratteri di ufficialità, e sul quale si basò per oltre un cinquantennio la letteratura sulla Strage del Duomo di San Miniato, nonché la "costruzione" della memoria nelle sedi ufficiali. Si dovrà attendere, infatti, il "Decreto di Archiviazione n.262/96/R. ignoti" del 20 aprile 2002, emesso dal Tribunale Militare della Spezia, che ribaltò la tesi del gelido eccidio tedesco, ormai divenuta insostenibile.
La
Cattedrale dei SS. Maria Assunta e Genesio Martire
Foto
di Francesco Fiumalbi
LA
COMMISSIONE D'INCHIESTA
La
nuova Giunta Comunale – nominata il 5 agosto dal Governo Alleato su
indicazione del CLN di San Miniato – il 21 settembre 1944 costituì
una commissione d'inchiesta presieduta dal Sindaco Emilio Baglioni e
composta dal notaio Gino Mori Taddei nella veste di Segretario,
dall'avv. Ermanno Taviani, dall'ing. Aurelio Giglioli, dal dott.
Dante Giampieri e dal Sig. Pio Volpini. Tale commissione svolse una
lunga istruttoria, raccolse varie informazioni, testimonianze e
perizie sull'esplosione che provocò la morte di 55 civili
all'interno della Cattedrale. Nell'ultima seduta, tenutasi il 27
giugno 1945, la commissione affidò la redazione delle conclusioni ad
una persona
assolutamente estranea all'ambiente cittadino,
individuata nel Giudice del Tribunale di Firenze Dott. Carlo
Giannattasio. Quest'ultimo, il giorno 13 luglio 1945, inviò la
relazione alla commissione d'inchiesta, poi trasmessa al sindaco il
17 luglio successivo [cfr. M. Battini e P. Pezzino, Guerra
ai Civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944,
Saggi Marsilio, Venezia, 1997, pp. 107-108].
Il
Giudice Carlo Giannattasio era una figura certamente estranea
all'ambiente sanminiatese e legata al Comitato Toscano di Liberazione
Nazionale. Aderì al Partito d'Azione assieme, fra gli altri, a Carlo
Lodovico Ragghianti e Luigi Russo (autore poi della “prima”
lapide sulla facciata del Municipio di San Miniato nel 1954).
LE
CONCLUSIONI DEL GIUDICE GIANNATTASIO
Da un punto di vista dei contenuti,
la Relazione si compone di una vasta introduzione (che servì a
Giannattasio per fare il punto sul contesto, sul clima e sulle
vicende dei giorni immediatamente precedenti alla Strage del Duomo) e
delle “risposte” ai quesiti avanzati dalla commissione
d'inchiesta comunale:
I.
Se furono cannonate, bombe o ordigni esplosivi che colpirono la
Cattedrale.
II.
Se tali cannonate, bombe o ordigni erano di provenienza tedesca o
anglo-americana.
III.
Se e quali cause determinarono l'eccidio.
IV.
Se e quali eventuali responsabilità morali, dirette o indirette vi
furono da parte delle Autorità locali politiche, amministrative,
religiose.
In estrema sintesi, il Giudice
Giannattasio, avvalendosi anche di due perizie balistiche, accolse la
controversa tesi della “doppia cannonata”, ovvero che all'interno
del Duomo fossero penetrati due proietti: uno alleato (senza fare
danni) e l'altro tedesco (ritenuto la causa della strage) sparato
come rappresaglia per l'ostilità manifestata dalla popolazione in
quei giorni. Tale ricostruzione balistica è stata poi ampiamente
discussa ed esclusa categoricamente. Infine assolse con formula piena
tutte le autorità sanminiatesi, sia politiche, amministrative che
religiose, scaricando ogni responsabilità unicamente sui militari
germanici.
LA
“RELAZIONE” NELLA STORIOGRAFIA
Proprio
partendo dalle conclusioni contenute nella “Relazione Giannattasio”
fu dettata la “prima” lapide collocata sul Municipio di San
Miniato nel 1954, a firma di Luigi Russo e oggi ricollocata, assieme
alla “seconda”, presso i Loggiati di San Domenico. D'altra parte quella era la "linea ufficiale", impossibile da mettere in discussione in quegli anni.
Il
testo di Giannattasio destò fin da subito numerose perplessità.
Soprattutto da parte di chi rimase insoddisfatto dalle conclusioni,
redatte in appena due settimane dal 27 giugno al 13 luglio 1945 e, probabilmente, senza mai effettuare un sopralluogo a San Miniato.
Uno dei primi a muovere aspre critiche all'esito della relazione fu
il Canonico Enrico Giannoni che in occasione del 10° anniversario
della Strage pubblicò su Il
Mattino di Firenze del
21 luglio 1954 la propria “controinchiesta” specificando che «la
soluzione data, a mezzo di un foglio, pubblicato il 13 luglio 1945, a
cura della Giunta Comunale, col titolo «Luce sul tragico
avvenimento» quale frutto dell'inchiesta di un apposito comitato,
non appare affatto soddisfacente. Non risulta per nulla chiara, e
tale da tramandarsi, coscienziosamente, alla storia. Bisogna
ritornare sopra a codesto foglio, dato che, in dieci anni, è passata
tanta acqua sotto i ponti da spazzar via le troppe prime fallaci
impressioni, le puerili dicerie e, anche, gli sciocchi timori e le
conseguenti viltà d'animo». Il "foglio" a cui si riferisce Giannoni non è altro che una formulazione sintetica della Relazione, compilata per divulgare gli esiti della commissione d'inchiesta.
Sulla
stessa linea del Canonico Giannoni, a distanza di circa 35 anni,
anche il testo di Giuliano Lastraioli e Claudio Biscarini, §
5. San Miniato (22 luglio 1944. Le schegge non fanno curve,
in Id. Arno
Stellung. La quarantena degli Alleati davanti a Empoli (22 luglio –
2 settembre 1944),
in «Bullettino Storico Empolese», n. 9, a. 32-34 (1988-1990),
Empoli, 1991, pp.
215-224.
Alcuni
anni dopo, Michele Bettini e Paolo Pezzino, pur accogliendo la tesi
della responsabilità tedesca, assumono comunque un profilo assai
critico nei confronti della “Relazione Giannattasio”, affermando
che «si trattava,
perciò, di porre il suggello finale ad una sentenza che pareva ormai
scontata, tanti erano gli elementi che deponevano in quella
direzione. Giannattasio svolse il suo compito in maniera che oggi
appare frettolosa, ma che allora sembrò pienamente soddisfacente,
tanto che la commissione gli espresse il proprio apprezzamento in una
lettera del 18 luglio 1945, nella quale la sua relazione veniva
considerata «obbiettiva ed esauriente»»
[M.
Battini e P. Pezzino, Guerra
ai Civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944,
Saggi Marsilio, Venezia, 1997, pp. 110-111].
Ancor
più severo il giudizio di Paolo Paoletti: «la
relazione Giannattasio ha due soli meriti: 1) quello di aver chiarito
senza ombra di dubbio, peraltro con la sola testimonianza del medico
Angiolo Lupo, che curò i feriti, che non si trattò di una mina ma
di una bomba; 2) quello di aver scagionato da ogni sospetto il
Vescovo Giubbi. Per il resto la relazione Giannattasio è
completamente da rigettare, in quanto mostra gravi lacune
esplicative, arrivando a conclusioni quanto meno superficiali, senza
alcuna riflessione logica. Si tratta di una relazione che si basa più
sulle suggestioni, che sui dati di fatto»
[P. Paoletti, 1944
San Miniato. Tutta la verità sulla strage,
Mursia, Milano, 2000, pp. 194-195].
La
Cattedrale dei SS. Maria Assunta e Genesio Martire
Foto
di Francesco Fiumalbi
IL
TESTO DELLA “RELAZIONE GIANNATTASIO”
Ad oltre settant'anni da quando
venne redatto, il testo del Giudice Carlo Giannattasio non può che
apparire “anacronistico” sotto tutti i punti di vista e non è
questa la sede per muovere le pur necessarie osservazioni o critiche al suo complesso e ad ogni singola frase.
Tuttavia la “Relazione
Giannattasio” deve essere considerata comunque come un documento
storico, frutto di quel tempo, di quel particolare contesto
cittadino sanminiatese e della particolare situazione italiana e mondiale nei giorni immediatamente successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un documento che merita
di essere letto e divulgato, anche soltanto per tentare di comprendere ciò che è stato il dibattito nei decenni a seguire: è
proprio su questo testo, infatti, che si è basata per quasi
sessant'anni la costruzione della “memoria” della Strage del
Duomo nelle sedi ufficiali. Come è stato detto, di fatto questo è stato l'unico documento
pubblico, avente caratteri di ufficialità, relativo alla pagina più
dolorosa della storia sanminiatese.
Di
seguito è proposta la trascrizione del documento conservato presso
l'Archivio Storico del Comune di San Miniato, F200 S062 UF184, 22
Luglio 1944. Inchiesta Eccidio del Duomo,
fasc. n. 1, Relazione
dell'Inchiesta:
[01]
RELAZIONE
SULL'INCHIESTA PER L'ECCIDIO DEL DUOMO DI S. MINIATO
DEL
22 LUGLIO 1944
Uno
degli episodi più sanguinosi, che hanno caratterizzato la ritirata
tedesca in Toscana nell'estate 1944, è l'eccidio della cattedrale di
S. Miniato (Pisa), nel quale trovarono la morte cinquantaquattro (54)
persone, senza contare altri eventuali deceduti tra i feriti che
furono trasportati dalle truppe americane in ospedali fuori Comune
(fal. 58 bis).
Appena
liberata la città, uno dei primi compiti della rinnovata
Amministrazione Comunale fu quello di costituire una Commissione di
Inchiesta al fine di accertare le cause che provocarono l'eccidio e
di stabilire se vi fu qualche manchevolezza da parte delle autorità
locali, che, direttamente o indirettamente, abbia potuto influire
sulla tragedia.
Dopo
lunga istruttoria, che comprende l'esame di numerosi testimoni e la
redazione di perizie tecniche, il 27 giugno 1944 la Commissione
unanime, “ritenuto che per garantire l'esame obiettivo del
materiale raccolto e la massima serenità di giudizio, fosse
opportuno e necessario affidare l'incarico di trarre le conclusioni
dell'inchiesta a persona assolutamente estranea all'ambiente
cittadino”, deliberava di affidare al sottoscritto il compito di
redigere il giudizio definitivo, rispondendo ai seguenti quesiti.
I. Se
furono cannonate, bombe o ordigni esplosivi che colpirono la
Cattedrale.
II. Se
tali cannonate, bombe o ordigni erano di provenienza tedesca o
anglo-americana.
III. Se
e quali cause determinarono l'eccidio.
IV. Se
e quali eventuali responsabilità morali, dirette o indirette vi
furono da parte delle Autorità locali politiche, amministrative,
religiose.
E'
necessario innanzi tutto la ricostruzione dei fatti che precedettero
l'eccidio del 22 luglio 1944.
Nella
notte tra il 17 e il 18 luglio 1944, non distante dal Convento [02]
dei Cappuccini in
S. Miniato furono uditi dal Guardiano p. Quirino da Rigutino dei
colpi di arma da fuoco. Alle sei del mattino del 18 alcuni militari
tedeschi accompagnati da un paracadutista fascista, certo Caporali
Antonio, pretesero perquisire il Convento, dal quale, a loro dire,
erano partiti i colpi e minacciavano severe rappresaglie per
l'uccisione avvenuta nella notte, a pochi metri dal muro di cinta del
Convento, di un militare germanico (fol. 9).
Qualche
ora più tardi, e precisamente alle II, padre Quirino si recò ad un
comando tedesco situato presso il Convento per chiedere chiarimenti.
Dal Comandante, che era un capitano, fu incaricato di avvertire la
popolazione di abbandonare la città entro le ore 16, perché la
medesima sarebbe stata fatta da loro saltare (fol. 9). Padre Quirino
si recò allora al Comando militare tedesco di S. Miniato, ove, in
assenza del Colonnello, un tenente assicurò che nessun ordine era
stato emanato e che si poteva tranquillizzare la popolazione (fol.
10). Sempre nel pomeriggio del 18, il canonico d. Pietro Stacchini,
interpretando il desiderio del popolo, fece presente a mons. Ugo
Giubbi, vescovo di S. Miniato, l'opportunità di intervenire presso
il Comando tedesco per impedire lo scempio della città. Il Vescovo
acconsentì e preparò una lettera, che fu recapitata dal canonico
Fiorentini e dal chierico Ruggini prima al Comando tedesco presso la
Villa Capponi con esito negativo (fol. 12), poi al Comando presso il
Convento dei Cappuccini, ove un maresciallo dichiarò ai due
sacerdoti, ai quali si era aggiunto p. Quirino, che non sapeva nulla
(fol. 11).
Mentre
questi passi venivano compiuti, un soldato tedesco ed il
paracadutista Caporali (quegli stessi che qualche giorno prima il
maresciallo dei carabinieri Conforti aveva arrestato e consegnato
alla gendarmeria germanica perché sorpresi a rubare biciclette,
apparecchi radio e macchine da scrivere – fol. 12 e 30) si recavano
in Episcopio e a Mons. Giubbi ripetevano l'ingiunzione di far
sgombrare la città, perché si dovevano minare delle case al fine di
ostacolare il passaggio delle truppe alleate. Soltanto dopo le
vibrate proteste del Vescovo, i due militari acconsentirono che
coloro che risiedevano in Episcopio potessero restare nel rifugio
situato nelle cantine del palazzo (fol. 21).
Dopo
una giornata di così intensa emozione, la mattina del 19 [03]
luglio, verso le
ore 11, un sottufficiale germanico, certo Walter ed il paracadutista
Caporali ingiunsero a padre Quirino di far entrare i civili in
convento e di issare la bandiera pontificia, assicurando che detto
luogo sarebbe stato rispettato, questo ed altri episodi dovevano
maggiormente allarmare la popolazione. Al colono Vittorio Mazzetti,
il sottufficiale Walter ed il paracadutista assicuravano in quel
giorno che “San Miniato avrebbe fatta una triste fine” (fol. 11)
e soltanto il tempestivo intervento del canonico Stacchini evitò che
fosse minato il palazzo della Misericordia e la casa antistante (fol.
13). Ma oramai si diffondeva maggiormente la convinzione che qualche
malvagia azione fosse tramata.
La
mattina del 20 verso le ore 10 don Lionello Benvenuti veniva fermato
sulla strada nazionale da due militari tedeschi (SS), uno dei quali,
con accento concitato, gli disse che in S. Miniato dovesse esporsi
bandiera bianca sulla cattedrale (fol. 19). Fu subito informato Mons.
Vescovo, il quale ritenne prudente non esporre la bandiera perché i
tedeschi, i quali avevano significato che avrebbero resistito sino a
tutto il giorno 23, potevano interpretare la cosa come una
provocazione (fol. 19, 13 e 14).
La
giornata del 21 luglio trascorse senza avvenimenti degni di rilievo,
sebbene sotto l'incubo dell'imminente tragedia. La mattina di sabato
22 luglio, circa le ore 5,50 un ufficiale tedesco, accompagnato da un
sottufficiale che faceva da interprete e da alcuni soldati, si
presentò al palazzo vescovile e chiese di parlare col Vescovo, al
quale comunicò che tutti i civili, tolti i vecchi che non potevano
camminare, dovevano radunarsi nella piazza dell'Impero alle ore 8
precise, allo scopo di essere condotti in campagna, dove si sarebbero
trattenuti per circa due ore, perché, a restare in città, v'era un
pericolo grave (fol. 21-22, 24-25). Alle obiezioni del Vescovo
l'ufficiale dispose che la radunata venisse fatta, oltre che in
piazza dell'Impero, anche nella piazza della Cattedrale e che nelle
chiese si fermassero soltanto i vecchi, i malati e i bambini piccoli.
Tutti i validi sarebbero stati incolonnati e accompagnati fuori della
città (fol. 22).
La
notizia fu diffusa per mezzo dei sacerdoti e la popolazione allarmata
cominciò ad affluire nelle piazze determinate, specie in [04]
quella del Duomo.
L'ordine primitivo era stato intanto modificato, nel senso che la
popolazione doveva riunirsi nelle Chiese del Duomo e di S. Domenico
(fol. 14). La proposta del Vescovo di ammetterla anche alla Chiesa
del SS. Crocifisso fu respinta (fol. 22). Alla signorina Donati che
chiedeva spiegazioni di quel concentramento, venne risposto da
militari tedeschi: “Grande combattimento S. Miniato” (fol. 16). I
militari che al massimo avevano visitato il Vescovo avevano parlato
di “Giornata di combattimento” (fol. 24 e 26).
Alla
popolazione convenuta nella Cattedrale Mons. Vescovo dal pulpito
pronunciò parole di incoraggiamento e di fede. Il Preposto, intanto,
iniziava la celebrazione della Messa. Verso le ore 9 dopo aver
distribuito delle immaginette, aver recato del laudano ad un
sofferente e di aver disposto che lo chiamassero all'occorrenza,
Mons. Giubbi scese nel rifugio ridetto provvisoriamente a Cappella
per celebrare a sua volta la Messa.
Verso
le 10 fu udito il primo colpo di cannone, cui seguirono altri subito
dopo (fol. 5 e 44). I presenti ebbero l'impressione che la prima
cannonata scoppiasse all'esterno e facesse cadere i vetri in Chiesa
(fol. 5), mentre la seconda e una terza colpirono la sacrestia nella
parte centrale della Chiesa in più parti (fol. 44). Il Duomo fu
avvolto in una nuvola nera (fol. 6). Morti e feriti giacevano da più
parti. La popolazione era in preda alla disperazione. Il Sacerdote
Guido Campigli dette per tre volte l'assoluzione e consigliò le
persone ad uscire di chiesa per ritornare al rifugio, ma gli fu
risposto che i tedeschi impedivano l'uscita della popolazione. Don
Campigli si recò sulla porta di sinistra sullo sdrucciolo del
Crocifisso e gridò alle persone che aveva presso di lui di recarsi
al rifugio. La popolazione si riversò fuori di Chiesa ed iniziò
l'opera di soccorso. Tutto il resto della giornata passò
relativamente calmo fino all'arrivo delle truppe alleate (fol. 45).
--------------------------------
RISPOSTA
AI QUESITI N. 1 e 2
Sebbene
le truppe tedesche avessero provveduto a collocare in S. Miniato
numerosi ordigni esplosivi, può senz'altro escludersi [05]
che mine od altri
ordigni siano stati collocati nella Cattedrale o nelle immediate
adiacenze e che la Chiesa sia stata colpita da bombe. Quale sia stata
l'impressione, puramente subiettiva, del Maresciallo Pietro Conforti
(fol. 32) e del sig. Adone Bonistalli (fol. 6) manca qualsiasi
rilievo obbiettivo che autorizzi l'affermazione che mine o altri
ordigni siano esplosi il 22 luglio ed abbiano causato o anche
soltanto concorso nella produzione dell'evento mortale. Nei residui
che furono rinvenuti durante la pulizia della Cattedrale non v'era
alcuna traccia di mine.
Decisiva
a tale riguardo è la testimonianza del dott. Angiolo Lupi “Ho
medicato moltissime persone ferite nella Cattedrale il giorno 22
luglio. Posso dire che le ferite erano varie ed avevano l'aspetto di
ferite prodotte da scheggia di granata. Ho astratto sia
immediatamente, sia successivamente diverse scheggie metalliche di
forma irregolarmente poliedrica, cioè dotate di un certo spessore.
Spesso le ferite in uno stesso soggetto erano multiple ed in genere
penetranti profondamente, non di rado in cavità oppure nelle masse
muscolari tanto da determinare fratture ossee comminute ed estese.
Per queste caratteristiche ritengo come probabile che le ferite siano
state causate da scheggia di granata. Successivamente ho avuto
occasione di curare e medicare anche ferite da mina che si
presentavano in genere di aspetto differente e cioè si trattava di
innumerevoli ferite per lo più superficiali o non molto profonde,
salvo la parte del corpo (per lo più arto inferiore) venute
direttamente in contatto con la mina, nella quale parte invece si
constatava una estesissima distruzione di tessuti se non addirittura
l'amputazione traumatica dell'arto (fol. 40-41).
La
Cattedrale fu colpita da due granate ed in ciò la prova generica
collima con quella specifica. La relazione 18 ottobre 1944 a firma
CHARLES R. JACOBS, Ist. Lt. Infantry Training Officer, del Comando
alleato dell'VIII Deposito Complementi, giunge alle seguenti
conclusioni: “Al momento dell'incidente una granata di calibro non
troppo grande è entrata nella Chiesa attraverso una finestra
circolare, collocata in alto nel lato Nord. Questa granata, con una
traiettoria [06]
abbastanza alta,
colpì direttamente una colonna entro la Chiesa vicino all'altare.
Una scheggia lanciata dalla esplosione ha asportato la balaustra di
marmo e la direzione dell'urto è stata tale che tutta la forza dello
scoppio si è sprigionata nella piccola zona dove le persone colpite
erano, come si racconta, ammassate.
Mentre
queste persone erano ancora nella Chiesa una granata americana è
entrata nell'ala della Chiesa dalla parte più larga con angolo tra
sud ed ovest. Questa granata ha colpito il muro interno dopo essere
entrata attraverso una finestra e il punto dell'urto è pienamente
distinguibile presso il bassorilievo in marmo. Seguendo una linea
neutrale di rimbalzo, è stato notato che la granata non ha fatto
scheggie” (fol. 70).
In
termini concordanti è la relazione del Ten. Col. CINO CINI,
Comandante il 103° Battaglione Genio da Combattimento: “Dalla
ricostruzione in sito della traiettoria accerto che la bocca da fuoco
che lanciò il proiettile fu un pezzo d'artiglieria tipo mortaio di
calibro medio. Il proiettile risulta lanciato dallo stesso, piazzato
in direzione Nord-Nord Est rispetto alla città a distanza
imprecisata. Penetrato nel “rosone” della cappella della SS.
Annunziata, ha percorso l'ultimo tratto della traiettoria in curva
molto acuta, caratteristica di quest'arma costruita unicamente per
colpire obbiettivi ubicati in zone defilate.
Dall'esame
particolare del luogo e del punto d'urto del proiettile ove si
manifestarono maggiormente le terribili conseguenze, ed in special
modo dalla proiezione scomposta
delle scheggie che investirono quel settore di Chiesa, lo scrivente
deduce che lo stesso non ha trovato al momento dell'urto una
superficie piana, ma bensì curva e di struscio (vedi schizzo) e
conclude di conseguenza come la proiezione delle scheggie, unitamente
ai frammenti della colonna colpita, non abbiano avute una direzione
comune a tutti gli scoppi (come è dimostrato teoricamente) ma
deformandosi per l'urto avuto sopra una superficie rotonda (diametro
della colonna cm. 80 circa) lanciasse i materiali fratturati in
diverse direzioni con prevalenza nel senso indicato dalle frecce
rosse segnate nello schizzo; ciò, si comprende, per legge balistica,
obbligata dalla origine del lancio. Il sottoscritto esclude nel modo
più assoluto che il proiettile [07]
sia
penetrato nel Tempio attraverso uno dei “rosoni” esistenti sulla
facciata della Cattedrale, in quanto all'esame degli stessi, si può
facilmente osservare come nessuna traccia di penetrazione presenti la
fitta e spessa rete metallica fissata a protezione dei vetri dei
rosoni in oggetto.
Circa
il proiettile caduto nella Cappella del SS: Sacramento (vedi schizzo)
è fuori dubbio che questo risulta penetrato dal “rosone”
esistente sopra il muro esposto a Sud-Sud Ovest della Chiesa; quindi
accertato di provenienza di artiglieria alleata” (fol. 72).
Le
due relazioni, come si vede, concordano sulla provenienza e sulla
direzione delle due granate; concordano pure, come si vedrà in
seguito, sul valore causale di esse. La Cattedrale, dunque, fu
colpita da due granate, una di provenienza nord-nord est rispetto
alla città (tedesca), l'altra di provenienza sud-sud ovest
(americana).
--------------------------------
RISPOSTA
AL QUESITO n. 3
L'eccidio
fu causato esclusivamente dalla granata germanica. Si legge nella
relazione Jacobs: “Dei testimoni hanno affermato che fu visto
uscire dalla Chiesa molto fumo. La testata di una granata americana è
stata trovata entro la Chiesa, con i seguenti segni; “Fuse P.D.
M43”. Questa testata non è del tipo adoperato per le granate
americane che producono scheggie, avendo il fondo di metallo pesante
invece della solita composizione di alluminio. Non c'è possibilità
di affermare in modo definitivo se sia stata dell'uno o dell'altro
tipo, ma io credo che sia certamente stato una granata fumogena o una
granata al fosforo bianco. Nessuno di questi due tipi di granate
produce scheggie, ma sono adoperate principalmente ai fini di
mascheramento.
Deve
essere ben inteso che l'esplosione di questi due tipi di granate non
può causare che morti in seguito a bruciatura. Riassumendo i
risultati delle mie ricerche, io credo che le vittime siano state
causate dalla sola granata che entrò nella Chiesa attraverso la
finestra del lato nord e che esplose colpendo la “colonna” (fol.
70 e retro).
Il
perito T. Col. Cini non soltanto concorda con l'Jacobs sulle cause
dell'eccidio, ma chiarisce anche il dubbio di quest'ultimo [08]
se
la granata americana fosse fumogena o al fosforo:
“Però
in relazione ai danni minimi arrecati dallo scoppio di questo
proiettile (quello alleato), che ha segnato poche e leggere
scalfiture nelle pareti e solo danni al bassorilievo nel punto
d'urto, lo scrivente conclude che non si tratta di granata, ma di
proiettile “fumogeno” di piccolo calibro, lanciato forse per
togliere la visibilità ad osservatori tedeschi notati sopra i punti
dominanti della città e sopra il campanile della Cattedrale stessa.
Ciò è confermato da testimoni che osservarono subito dopo il
violento scoppio, una notevole fumata in quel lato del Tempio.
Si
esclude quindi che il proiettile sia stato di specie offensiva od
incendiaria (al fosforo) anche perché da dichiarazioni raccolte,
viene accertato che non fu avvertito dai presenti odore acre, come
del resto non risulta che si sviluppassero incendi” (fol. 72 e
retro). Il dissidio tra l'Jacobs ed il Cini è sul punto se trattasi
di una granata fumogena o al fosforo oppure di proiettile fumogeno e
sembra più esatta da una parte la tesi dell'Jacobs, che si fonda su
di un elemento obbiettivo, e cioè il rinvenimento entro la Chiesa
della testata di una granata americana. D'altra parte sono
ineccepibili e fondati sulla prova specifica i rilievi del Cini in
base ai quali è escluso che si sia trattato di una granata al
fosforo.
Comunque
sia, e cioè tanto nel caso che dalla direzione sud-sud ovest sia
penetrata, attraverso il rosone, nella Cattedrale una granata
fumogena tanto in quello che sia penetrato, invece, un proiettile
fumogeno, poiché non risulta che vi siano stati morti o feriti a
seguito di ustioni o per asfissia, se ne deduce che le vittime
dell'eccidio (morti e feriti) sono dovute tutte alla caduta della
granata germanica, lanciata dal mortaio situato sulla riva destra
dell'Arno e che penetrata nella Chiesa dal lato nord, andò a colpire
la prima colonna di destra e si disperse in mille frammenti.
Può
affermarsi, con tranquilla sicurezza, che l'eccidio fu preordinato.
Come
è stato già rilevato, la tragedia si verificò verso le ore dieci
di sabato 22 luglio 1944. Verso le ore 0,30 un militare tedesco, al
quale don Lionello Benvenuti chiese il permesso per un fedele di
lasciare la chiesa e recarsi nel vicino alloggio a prendere [09]
cibarie,
rispose: “Non c'è bisogno di andare, perché tra poco tutto è
finito” (fol. 20). La signora Simoncini ha sentito dire da molte
persone che alcuni militari tedeschi, i quali sostavano sul prato del
Duomo davanti alla Chiesa, prima dell'esplosione, guardavano spesso
l'orologio (fol. 27). Dalla signora Morandi Elvezia ved. Catini la
mattina del 22 luglio un militare polacco si reca per avvertirla di
star lontana dalla Chiesa: “Non stare in Chiesa, oggi pericoloso,
dire anche agli altri che c'è pericolo” (fol. 35). Analogo
avvertimento fa un certo maresciallo Werner alla signorina Adriana
Ceccherelli ed alla sua donna di servizio, con le parole: “La
Chiesa non buono”. Alla stessa Ceccherelli, dopo l'eccidio, un
militare tedesco, di nazionalità polacca, afferma: “Vigliacchi i
tedeschi a mandarvi tutti nelle Chiese, in Chiesa grande vi sono
molti morti e feriti” (fol. 45-46). E' stato già notato che,
durante il cannoneggiamento, i tedeschi impedivano l'uscita della
popolazione dal tempio (fol. 45).
Ove
si consideri che la guerra non passò per S. Miniato, che nessun
scontro tra partigiani e tedeschi è avvenuto nei pressi di S.
Miniato nella notte tra il 21 e il 22 luglio (fol. 28), tale da far
temere al Comando tedesco che le truppe potessero essere colpite alle
spalle dalla popolazione durante la ritirata, è evidente che la
popolazione fu radunata nella Cattedrale con il preordinato scopo di
compiere un massacro: doveva essere vendicato il soldato tedesco
trovato ucciso a tre metri dal muro di cita del Convento dei
Cappuccini, come fu spiegato a P. Quirino quando fu detto che la
legge tedesca in tempo di guerra non conosce morale (fol. 9); si
voleva punire la popolazione di S. Miniato che si conosceva ostile e
che non si poteva deportare per mancanza di mezzi e di uomini
sufficienti (fol. 52).
--------------------------------
RISPOSTA
AL QUESITO n. 4
Al
quesito se ricorrono responsabilità da parte di autorità politiche,
amministrative o religiose, va subito risposto che di autorità
politiche non ne esistevano in quell'epoca di trapasso tra un regime
che era scomparso ed uno che ancora non era sorto e che le autorità
amministrative erano del tutto assenti. Il Commissario prefettizio
cav. Genesio Ulivelli inviò un suo rappresentante, il sig. Filippo
Formichini ad accompagnare Mons. Vescovo
[10]
a
Firenze nella gita del giorno 8 luglio, allo scopo di attenere dal
Comando tedesco che la città di S. Miniato fosse stata risparmiata
(fol. 21), ma nei giorni che precedettero quello dell'eccidio non v'è
traccia di autorità sul posto. Il Cav. Ulivelli assicura che era in
S. Miniato (fol. 67) ma nelle lunghe trattative non v'è segno della
sua presenza. Il maresciallo dei Carabinieri Conforti dovette
nascondersi perché ricercato dal paracadutista Caporali che voleva
vendicarsi dell'arresto (fol. 31). Va rilevato, però, che da parte
del Comando tedesco v'era la determinazione di deportare tutte le
autorità nell'Italia Settentrionale, come fu fatto chiaramente
intendere al Presidente del Tribunale di Livorno, comm. Martini (fol.
52) per cui la loro presenza, mentre avrebbe costituito un indubbio
pericolo personale, nulla avrebbe giovato alla popolazione di S.
Miniato. Lo dimostra il fatto che il Comando tedesco non volle
ascoltare la parola di Mons. Vescovo, non prese in considerazione
l'offerte di due sacerdoti e di uno studente seminarista di darsi in
ostaggio a garanzia della incolumità dei soldati tedeschi (fol 13),
non dette alcun seguito al passo compiuto dalla Signorina Donati e
dal Presidente del Tribunale di Livorno (fol. 52).
Le
autorità religiose, che si sostituirono alla autorità civili
mancanti, dettero alla popolazione ogni assistenza spirituale e
materiale, comunicando ai cittadini gli ordini che il comando
germanico trasmetteva verbalmente. Mons. Vescovo non si trovò
presente nella Cattedrale nel momento più doloroso, perché si era
recato a celebrare la Messa nella cappella del rifugio, ma era stato
fino a poco tempo prima fra i fedeli a pronunciare parole di
incoraggiamento, ed incitare alla preghiera e appena possibile,
ritornò nella Cattedrale, ove altri sacerdoti impartivano
l'assoluzione ai morenti e davano soccorso ai feriti. L'opera che il
Clero di S. Miniato svolse in quei tristissimi giorni è superiore ad
ogni elogio.
Al
quarto quesito credo che si possa rispondere negativamente,
escludendo qualsiasi responsabilità, diretta o indiretta,
giudiziaria o morale, delle autorità locali, civili e religiose.
Firenze,
13 luglio 1945
dott.
Carlo Giannattasio
Giudice
del Tribunale di Firenze