a
cura di Francesco Fiumalbi
INTRODUZIONE
Augusto
Conti [San Miniato, 6 dicembre 1822 – Firenze, 6 marzo 1905] è
stato un docente, letterato, filosofo, politico, e patriota. E'
stato anche il primo sanminiatese a sedere sui banchi del Parlamento
italiano, eletto nel collegio di San Miniato per la Camera dei
Deputati alla seconda legislatura del Regno d'Italia.
In
questa pagina è proposto un interessante articolo
del
filologo e scrittore Ermenegildo
Pistelli [Camaiore,
15 febbraio 1862 – Firenze, 14 gennaio 1927],
incentrato su un episodio poco conosciuto della sua giovinezza. Benché
d'animo acuto e mosso da alti sentimenti, è risaputo che Augusto
Conti avesse un piglio particolarmente deciso e risoluto, su
cui farà leva per le sue numerose “battaglie” filosofiche, ma
anche durante la battaglia – questa sì veramente combattuta con
le armi – di Curtatone e Montanara, a cui prese parte come
volontario.
Ritratto di Augusto Conti,
Immagine contenuta in G. Berzellotti, Due filosofi italiani,
in «Nuova Antologia di Lettere, Scienze ed Arti»,
V. Serie, Vol. CXXXVI (CCXX), Roma, 1908, p. 180
QUANDO
SI DICE... UN GIOVANE “VIVACE”
Durante
il suo periodo universitario, presso l'ateneo pisano, Augusto Conti
si rese protagonista di una vera e propria aggressione fisica, una
sorta di “agguato”, nei confronti del professore Federico Del
Rosso (a Pisa c'è anche una piazza a lui dedicata). Era il 1842 e il giovane sanminiatese non aveva compiuto
nemmeno vent'anni. L'università era in subbuglio e la situazione era "esplosiva", per vari motivi su cui non staremo ad indugiare.
Individuato dagli organi di polizia, fu spedito in
carcere. Lasciando tutti i dettagli al testo dell'articolo, c'è da
dire che le conseguenze, alla fine, non furono particolarmente gravi
sia per il Conti, che per gli altri studenti che avevano orchestrato
manifestazioni e atteggiamenti aggressivi nei confronti dei docenti.
Gli “stranieri” (ovvero i ragazzi che venivano da fuori del
Granducato di Toscana) furono rimandati a casa. Anche Augusto Conti
fu rispedito a San Miniato, ma con il bando perpetuo dalle università
dell'intera Toscana. Tra l'altro, in tutta questa vicenda troviamo anche Dario Pini, pure lui sanminiatese, che evitò il carcere per un problema di salute.
La soluzione di tutta la vicenda fu certamente
magnanima e "paterna" – vista la gravità dei fatti – ma rischiava comunque di
influenzare il resto della sua vita. Il Conti, infatti, per
continuare gli studi fu costretto a “emigrare” a Lucca (che fu
annessa al Granducato di Toscana solamente nel 1847) dove poté
frequentare la facoltà di Legge presso il “Real Liceo”, detto
anche “Real Collegio”.
Insomma si tratta di una vicenda che segnerà il giovane Augusto Conti, pur senza scalfire il suo temperamento. Tutti i dettagli nell'articolo proposto di seguito.
E. Pistelli, Profili e Caratteri,
G. C. Sansoni, Firenze, 1921, frontespizio.
Di
seguito è proposta la trascrizione dell'articolo di E. Pistelli,
Augusto
Conti studente,
in Id, Profili
e Caratteri,
G. C. Sansoni, Firenze, 1921, pp. 3-27:
[003]
AUGUSTO
CONTI STUDENTE
Più
di trent'anni fa, nell'Aula Magna dell'Istituto Superiore di Firenze,
Augusto Conti doveva, una domenica mattina, parlare dei
Missionari cattolici italiani. Ma pochi giorni prima studenti e
associazioni «anticlericali» avevan domandato l'Aula per
commemorare Giordano Bruno; e siccome era stata negata, vennero in
massa alla conferenza del Conti, e ne nacque un pandemonio, che durò
una buona mezz'ora: urli, fischi, boati. Io, che conoscevo bene il
Conti, avevo una gran paura che reagisse con violenza, e Dio sa
che cosa ne poteva nascere. Invece fu il solo a mantenersi calmo, e
sbollite le furie lesse il suo discorso con energia di voce e di
gesto. Il giorno dopo lo incontrai in Piazza del Duomo e lo fermai
per dirgli: — Professore,
gli studenti non l'avevan mica con lei....
— Ma appena ebbi cominciato, mi interruppe: — Nulla
nulla; non ne parliamo; ho già dimenticato; ho fatto troppo di
peggio io da studente....
— Qualche altra volta ho udito da lui questa stessa allusione,
sempre detta con espressione dolorosa, anzi di rimorso. Ma
particolari mai, perché [004]
appena gli eran chiesti mutava discorso. Si sapeva che studente a
Pisa aveva bastonato un suo professore, ma nulla di più.
Quando,
dopo la sua morte uscì sul Conti un libro, scritto da Augusto Alfani
(01)
che con lui era stato in gran familiarità, sperai di trovarci anche
il racconto di quell'episodio studentesco, del quale tutti parlavano
e pochi sapevano. Ma non c'erano che poche incerte parole. «Sembra»
- dice - che il professor Del Rosso da vecchio si dimostrasse
«ritroso a ogni idea di rinnovamento politico»; e perciò fu ordita
una trama per farne giustizia. Rimessa alla sorte la scelta degli
assalitori, «il primo nome a uscire dalla borsa fatale fu quello di
Augusto Conti, che non indietreggiò». Andati alla casa, tre
trattennero la donna di servizio, gli altri salirono e bastonarono il
vecchio. Questo soltanto, e poco più. Dirò subito che anche
l'Alfani era informato poco, e inesattamente. Ma quell'aggressione
certo aveva fatto chiasso: dovettero occuparsene l'Università, la
polizia, il governo la magistratura. Pensai dunque di cercarne
notizie all'Archivio di Stato, e trovai presto e facilmente tal massa
di documenti, che basterebbe a comporne un volume non inutile sulla
vita della vecchia e gloriosa Università Toscana (02),
che ogni anno per una ragione o per un'altra turbava i sonni anche
del toscano Morfeo.
[005]
Alle
due e mezzo della notte tra il 15 e il 16 aprile 1842, Humbourg,
governatore di Pisa, spediva a Firenze una staffetta con una grave
notizia, che doveva «altamente conturbare l'animo dell'Ottimo
Principe». La sera del 15 tre giovani, entrati in casa del professor
Federigo Del Rosso (03),
in Via Santa Caterina, l'avevano gravemente ferito alla testa a
bastonate. Interrogato, aveva dichiarato di non aver riconosciuto gli
aggressori; ma escludeva fossero suoi scolari, perché i suoi scolari
«eran buoni e l'avevano sempre rispettato». I magistrati avevano
aperto un'inchiesta, l'Università era stata chiusa d'ufficio, la
truppa «pronta al bisogno che potesse sopravvenire».
A
Firenze l'impressione fu viva. Che gli studenti da tempo
tumultuassero dimostrassero e fischiassero, si poteva capire; ma non
che bastonassero i professori, e a tradimento: bisognava metter
riparo al male. Subito partirono ordini severi di far quant'era
possibile «per giungere alla punizione esemplare dei colpevoli», e
si mandò, a Pisa un distaccamento di cacciatori a cavallo da
Livorno; ma si ordinò di riaprire l'Università perché il delitto
doveva ritenersi «isolato», e non poteva «compromettere la massa
degli studenti». Che però si trattasse di studenti fu subito voce
comune, e probabilmente «di studenti lombardi o romagnoli».
Bisognava scoprirli: [006]
«cogli
zecchini» — dice testualmente una di queste ufficiali — «si
deve pur trovare il Giuda»; dove sorprendete il bonario governo
toscano che s'augura sì di trovare una spia, ma intanto la battezza
per un Giuda. Quanti erano? Si parlava di quaranta congiurati, visti
all'ora del delitto all'imboccatura di Via Santa Caterina. Se questo
è vero — scriveva impensierito l'Auditore di Pisa al Bologna
presidente del Buon Governo — «si va incontro a un processo di
rilevanza immensa». Per fortuna il Del Rosso, che nelle prime ore
aveva fatto temere della vita per la gran febbre e il molto sangue
perduto, pareva già fuor di pericolo; così almeno assicurava il
Regnoli che lo curava.
Dopo
un giorno o due, cominciano a venir fuori alcuni nomi, e subito tra i
primi «Augusto Conti di San Miniato». Egli quella sera era tornato
a casa in Via San Frediano, «frettoloso e ansante, con in mano un
bastone di canna da zucchero». E la sera stessa altri studenti
armati di bastone avevan seguito il professor Carlo Matteucci
«mostrando sinistre intenzioni». Tre giorni dopo, ancora sgarbi o
minacce a molti professori: a Regnoli, Obici, Bonaini, Corridi,
perfino al Carmignani.
L'agitazione
durava da tempo, per motivi vari. Politici, contro professori
sospetti di poca simpatia per le idee liberali; personali, contro
professori che paressero troppo severi. C'era stato «l'ordine
sovrano» che alle lezioni «il bidello» facesse la chiama; e può
immaginarsi come fosse accolto: la chiama era ed è odiosa agli
studenti; fatta dal bidello, diventava odiosa e ridicola. Poco prima
del caso Del Rosso, c'erano stati altri «casi», e in tutti o quasi
implicato il Conti. Una sera al teatro [007]
gli
studenti fecero baccano contro una brutta commedia. Ne furono
«esiliati dal teatro» quattro, e tra questi il Conti: tutti gli
altri, naturalmente, congiurarono che nessuno studente sarebbe più
andato a quelle recite. Due studenti piemontesi, Setti e Del
Carretto, furono espulsi come turbolenti dal Granducato: si trovò
che tra i loro amici più intimi erano Augusto Conti — e, per
ricordare due nomi noti — Pietro Cironi e Alfonso Andreozzi; il
quale ultimo in un rapporto poliziesco è definito «tra i più
cattivi il pessimo»; e non lo crederà chi abbia conosciuto, come io
l'ho conosciuto, l'avvocato Andreozzi, che era uomo d'una cultura
così fine e varia, e aveva la parola più limpida e dolce di quella
che scorreva dalla bocca di Nestore, e l'animo buono, e da
vecchio una gran miseria dignitosamente sopportata. Poi venne «il
caso Corridi» più grave, e che fu causa di quello Del Rosso. Il
Corridi, professore di calcolo differenziale e integrale, ebbe a
richiamare all'ordine Gaetano Terracchini di Reggio che non stava
attento alla lezione. Lo studente rispose risentito, le parole si
fecero grosse, e peggio fu che andato il Terracchini a casa del
professore, questi ebbe la cattiva ispirazione d'accoglierlo male e
dirgli che «l'affare era in mano della polizia». Per questo e altri
motivi fu fatta una «lega» per una dimostrazione contro il Corridi,
che riuscì tumultuosa e violenta, con grande spreco di patate e mele
fradice, non senza qualche sasso. Emilia Vivaldi, rivenditrice di
frutta in Piazza delle Vettovaglie, testimoniò di aver venduto a due
studenti ignoti «cinque libbre di mele marce per un soldo». Il
Massai, bidello dell'Università, riferì che a quello strepito
«molto popolo basso accorse [008]
dentro la Sapienza, e i ragazzi si occupavano a raccogliere le mele,
essendovene per terra in quantità»; testimonianza di non grande
rilievo, se non per indurne che forse non erano tutte marce; benché
la toga del Corridi portata davanti alle autorità — con la
solennità che Antonio quella di Cesare ucciso — provasse con le
molte macchie giallastre che le più eran marce di certo.
Naturalmente il bidello era interrogato per conoscere chi le aveva
tirate, e non chi le aveva raccattate. Ma naturalmente il brav'uomo
non aveva riconosciuto nessuno: «Sebbene
io abbia procurato di conoscere almeno qualcuno degli assalitori, non
mi è riuscito scoprirne veruno; mi è sembrato però che quel gruppo
di scolari fossero forestieri».
Le accuse venivan sempre con quest'antifona, un po' per salvare i
toscani, che erano in casa loro, un po' perché veramente i
«forestieri», e specialmente gli emiliani e romagnoli, erano più
vivaci. Ma quando si venne a determinare e punire i più colpevoli,
che furon sei, troviamo tra questi anche il Conti, benché non
gli infliggessero che dieci giorni d'arresti in casa. Più tardi nel
processo per la bastonatura, egli interrogato dovè tornare anche
sulla dimostrazione contro il Corridi; e se ne leggerà volentieri la
descrizione nella sua fresca parlata toscana, quasi direi dalla sua
viva voce, che negli «atti» par proprio fonografata: « — Io
la mattina uscii di casa quasi all'ora della fischiata. Non sapendo
fischiar con la bocca, andai a comprare un fischio di coccio, e lo
comprai Lungo Borgo da una donna che li vende; e poi passando di
Mercato comprai quattro mele, e ne mangiai perfino tre, essendomene
quindi rimasta una sola in tasca. Andai davanti
[009]
la
Sapienza, e di fatto vidi molti giovani riuniti. Poco dopo venne il
professor Corridi; ma la fischiata non fu fatta perché rimasti tutti
come sorpresi; che è una naturale conseguenza delle risoluzioni
avventate quali sono quelle dei giovani. Allora io dissi a molti che
se la fischiata non avveniva, si dava maggior animo al Corridi,
perché aveva dimostrato d'essersi accorto di qualcosa alla
pallidezza del volto e con l'incertezza del passo allorché transitò
fra la turba dei giovani; e quindi non facendo qualcosa avrebbe
pensato che si fosse avuto paura. Così avrebbe avute maggiormente
sciolte le mani per commettere nuove ingiustizie e farci esiliar
tutti....»
—
Qui
racconta il caso del Terracchini, e poi ripiglia: «— Tornando
alla fischiata, allorché il Corridi uscì dalla stanza dei
professori in toga per andare a far lezione, furon fatti dei fischi
da quelli che eran fuori e che dietro le avvertenze mie entrarono in
Sapienza, e furon gettate delle mele. Io fischiai col fischio che
avevo comprato e tirai quella mela che m'era rimasta in tasca, con la
quale non mi ricordo se colpii il Corridi.... Vidi che un prete si
fece avanti e alzò le braccia dicendo: Oh! vergogna!, ma fu respinto
con golini e lattoni, senza che distinguessi da che parte gli
venissero
—».
Il resto lo leggeremo tra poco. Il contegno di qualche professore
non fu, dopo la indecente gazzarra, quale doveva aspettarsi. Alcuni
ebbero paura: il Bonaini il giorno dopo mandò a dire che non poteva
far lezione «per indisposizione»;
ma gli studenti capirono e risero alle sue spalle. Il Rosellini
invece fece lezione e fu molto applaudito. Il Carmignani, «aveva
cercato di redimersi» facendosi vedere a parlare familiarmente con
alcuno degli [010]
indiziati
e burlarsi del decreto sulla chiama. Più schietto e onesto di tutti
il buon Del Rosso partì da Pisa dicendo e lasciando scritto
ufficialmente che non sarebbe tornato «finché l'onore dei
professori non fosse vendicato e garantito»; «sdegnosa
dimostrazione d'animo generoso», scrive l'Auditore (04).
L'Auditore
era di parere che si dovesse chiudere l'Università almeno per
quindici giorni e mandar gli studenti a casa: così «le lingue si
sarebbero snodate e i padroni di casa avrebbero parlato»;
altrimenti, i professori «condurranno una vita angosciosa, timida, e
forse qualcuno di loro si comprometterà». E ci mancò poco non si
compromettesse il Regnoli. Una mattina che faceva la sua solita
lezione nel teatro anatomico, «alcuni studenti cominciarono a
tossire soffiandosi anche prolungatamente il naso». Il Regnoli, che
non somigliava il Bonaini, perse la pazienza, e di parola in parola
finì col dire: — «Io
non sono il Corridi: questo è il cadavere e questi sono i ferri».
— Era troppo, e dovè poi chiedere scusa agli studenti, che lo
applaudirono. Piace sempre ai giovani il coraggio. Perciò piaceva
poco — e con ragione — il con [011]
legno
di Monsignor Boninsegni, provveditore della Università, che dava
ragione a tutti e scusava tutti, ma sotto sotto con rapporti
«segretissimi e confidenziali»
faceva il
suo mestiere poliziesco. Quando il Conti era ormai compromesso, anzi
carcerato, egli informò su lui cosi: «— Questo
giovane ha svegliatissimo ingegno ma nessuna volontà di applicarsi
allo studio. Nei chiassi di tutto l'anno egli ha preso sempre una
parte diretta, avendo sulla scolaresca un'influenza molto
significante.... È generalmente riguardato come cattivo soggetto
—». Lasciando il cattivo soggetto, accusa generica, falsa e direi
stupida, era anche falso che il Conti non studiasse. Così a Siena i
primi tre anni di Legge, come poi a Pisa, s'era fatto onore: a Siena
l'Accademia dei Fisiocritici l'aveva premiato, che era studente
giovanissimo, di medaglia d'argento per una sua memoria. A Pisa il
Del Rosso l'aveva carissimo, e gli faceva lezione anche in casa;
sicché quando il Cancelliere nei primi interrogatorii insisteva
specialmente a domandargli del Conti, se l'avesse riconosciuto tra
gli aggressori, «con un di quei moti spontanei che non si possono
scrivere» — dice il rapporto — il professore esclamò: «— Il
Conti?! Ma che!
—» E da San Miniato, dove lo conoscevano meglio di monsignor
Boninsegni, venne un attestato, dove il Conti è definito «giovane
onestissimo, rispettoso, educato, che gode l'affetto e la stima di
tutti, studioso e amante delle scienze.... incapace di commettere
azione trista di qualunque genere»; e seguono le firme di
trentacinque de' primi cittadini sanminiatesi, tra i quali Damiano
Morali, Domenico Rondoni, il canonico Giuseppe Conti, Gaetano Gattai
rettore delle scuole.
[012]
Pisa
aveva quasi seicento studenti e tutta la vita della città si
concentrava in loro. Davan sempre da fare; ma in quei mesi dei fischi
al Corridi e delle bastonate al Del Rosso, molto di più del solito.
Scherzi o minacce in fogli volanti, adunanze e gite sospette,
iscrizioni eterodosse sui muri, dimostrazioni al teatro, occhiatacce
ai professori avversi, applausi ai professori amici (Rosellini,
Montanelli, Centofanti), e così via. E la polizia raccoglieva tutto
e di tutto dava conto al Buon Governo. Dopo i fischi, per esempio, fu
diffuso un Avviso Teatrale in sestine:
Scrivon
di Pisa che il 31 di Marzo
quelli
scolari per cacciar l'inedia
rappresentasser
col più grande sfarzo
una
ridicolissima tragedia
a
benefizio della polizia,
però
r autore non si sa chi sia.
Aggiungon
poi che il personaggio tragico
professore
di calcolo integrale
producesse
un effetto così magico
che,
dall'esser tenuto in nessun cale,
salisse
a un tratto in fama grande in Pisa,
facendo
tutti smascellar di risa.
E
seguita che il titolo era «Corrado alla ricerca degli irreperibili»
; ma poi «per certi commestibili» che
cadder sulla scena, nel programma
tragedia
non fu più, ma melodramma.
[013]
Poi
un Avviso
metereologico,
per bocca di Galileo,
che
sta di permanenza
seduto
su una seggiola
in
mezzo alla Sapienza,
anche
quello sul Corridi. E qua e là sui muri la scritta ammonitrice
Fermezza e Silenzio. Al teatro Lindoro geloso tirava non so a chi
delle mele, e gli studenti gli facevano una dimostrazione trionfale.
Allo studente Giuseppe Orlandi di Pontremoli, arrestato e perquisito
(per un rapporto segreto di mons. Boninsegni) vien trovata un'Ode a
Dio «dove si fanno allusioni
alla libertà d'Italia»:
Odi,
o Signor: rimira
sotto
del fascio orribile
Italia
che sospira
la
dolce libertà.
Non
so se quest'Ode fosse la stessa di quella «a Dio Redentore», della
quale si scoprì autore Giuseppe Falcini studente di chirurgia.
Eccovi il dialogo col Commissario di polizia che lo interroga sul
delitto poetico:
— Che
significa la preghiera che sia abbattuta la tirannide?
— S'intende
che sia abbattuto il potere di Satanno o del Demonio.
— E
per libertà dei popoli?
— Che
i popoli saranno liberi dopo infrante le catene di Satanno.
— E
il furore dei Regi?
— È
il furore dei demoni, mi par chiaro.
[014]
—
Proprio
chiaro ?
— Non
è la prima volta, signor Commissario, che un poeta scrive sotto
metafora e sotto allegoria....
—
Par d'esserci a sentirli, non è vero? E poi c'è
l'Accademia Puccinottiana, che ha per fondatori e membri alcuni
studenti di medicina, e preoccupa la polizia. Cos' è È davvero
scientifica o è politica? Trovo che Emidio Pistelli di Camaiore vi
lesse una memoria «sull'infiammazione in generale»; ma se quel mio
caro zio invecchiando diventò un gran codino, questo non esclude che
alludesse allora anche ad altre infiammazioni; perché allora era
giovane e liberale. Anche la prima lezione del Centofanti, con corone
d'alloro e accompagnamento a casa tra grida frenetiche, ha una lunga
storia in queste carte. Il che non impedì che anche lui fosse poi
sospettato dagli studenti più accesi, e che sui muri si leggesse:
Carmignani in Arno, col Bonaini (05).
Dopo i primi arresti per i fischi, si diffonde questa sestina (è in
atti, di mano del Conti, mi pare, e forse ne è lui l'autore):
Pace
pace si grida, e poi perdio
soffron
nuovi infelici ingiuste pene.
Pace
si grida, e tuttor nell'oblio
i
fratelli si lasciano in catene?
E
ancor si fa silenzio? Ma per poco:
un
punto solo è lo scoppiar del fuoco.
[015]
E
quando fu iniziata l'istruttoria per l'altro fatto, come ora vedremo,
andavano in giro questi altri versi:
Si
vorrebbe saper se sia più iniquo
un'aggressione,
un giovanil tumulto,
o
un inquisire proditorio, obliquo,
d'un
mercenario tribunale occulto;
se
sia più vile un giustiziar mendace,
o
la pazienza di chi soffre e tace.
Non
c'è mica male, tutti questi versi (non son proprio sicuro che oggi
gli studenti ne scriverebbero dei più belli). Ma quei giudici
toscani non meritavano un tono così alfieriano, come si vide poi
chiaro. E anche i poliziotti quando raccontano d'aver sequestrato
fogli volanti con domande di questo genere: — Se Newton per una
mela sola fece tante scoperte, quante ne farà il Corridi? —,
sorridono dell'ombroso professore di calcolo integrale; che se era
più padrone dei suoi nervi, avrebbe risparmiato molti guai a sé e
agli altri.
Ma
torniamo alle indagini e al processo Del Rosso. I primi sospettati
furono un Petronici romagnolo, un Elian marsigliese, Dario Pini e
Augusto Conti tutt'e due Sanminiatesi. Per il Conti trovaron subito
indizi e testimonianze che fosse proprio uno degli aggressori, come
ho già ricordato. Ma erano indizi deboli, per esempio che il Conti
l'avesse col Del Rosso perché negli esami d' ottobre voleva negargli
«il plauso» e glie l'aveva poi dato perché costretto dai colleghi
Regny e Montanelli. Non [016]
c'era una parola di vero in queste chiacchiere, che il Del Rosso
nell'interrogatorio chiamò «assurde»;
tant'è vero che il Regny non assisteva a quell'esame; e dopo
quell'esame — depose il Del Rosso — «elessi
il Conti capo di sezione, e tra me e lui è passata sempre tutta
l'amicizia possibile».
E aggiungeva, il brav'uomo, che «perdonava
a tutti, non voleva che alcuno fosse ricercato o inquietato
menomamente, rinunziava a qualunque diritto verso gli offensori».
Ma questa generosità non era ormai possibile: l'aggressione
premeditata, compiuta a tradimento, in una casa che era sempre
aperta agli studenti, contro un loro professore — che non aveva
altra colpa che d'aver chiesto fosse tutelata la dignità e la
libertà della cattedra —, tutto questo doveva essere inquisito e
punito esemplarmente. Si ebbe prima una «procedura economica» alla
quale fu preposto l'avvocato Filippo Zannetti Commissario di San
Marco a Livorno, poi una «procedura ordinaria». Subito nella prima
adunanza fu dato ordine che arrestati e perquisiti, tra gli altri, il
Conti e il Pini che eran tornati a San Miniato, fossero mandati alle
carceri di Livorno. Per il Conti fu subito fatto il 27 aprile, e
inutilmente i suoi genitori corsero a Pisa; il Pini non era a San
Miniato, ma i poliziotti persuasero i suoi a farlo presentare. Si
costituì infatti, e poiché era malato d'erpete, gli permisero certi
bagni e di vedere la mamma. Il Conti per qualche tempo nega: confessa
d'esser «focoso, ma anche facile a calmarsi e a chiedere anche
scusa»; «furioso da venir subito alle mani per una parola» dice un
rapporto. Ed era così davvero, e ne diede prove fino a ottant'anni;
e noi che l'abbiam conosciuto potremmo raccontarne di curiose. In
[017]
carcere
scrisse al Del Rosso che s'interponesse presso il Granduca affinché
il processo fosse troncato; e scrisse anche una supplica direttamente
al Granduca della quale è da leggere almeno questo periodo: «— Io
non farò qui proteste d'innocenza, perché gratuitamente dalla
Maestà Vostra non sarebbero credute; ma vi prego colle lacrime sul
ciglio per me, e per quelli che credo sieno con me arrestati, a
volere ordinare che sia tronco questo processo, affinché i non
colpevoli tolti da questo languore siano ridonati alle loro famiglie
piangenti; e il nome dei rei rimanga nel buio, per allontanare il
disonore d'un'azione troppo cattiva da loro e dalle loro povere
famiglie—
».
Bisogna compatirlo: non era ancora tanto filosofo da
accorgersi che ragionando a questo modo si dovrebbero chiudere
carceri e tribunali.
I
magistrati sentivano che, con i suoi alterni passaggi dalla
depressione all'esaltazione, il Conti mostrava una coscienza poco
tranquilla, e che avrebbe finito col confessare. Infatti, mentre
interrogato il 10 maggio s'era difeso assai abilmente, il giorno
seguente, dopo scritte le due suppliche, a nuove insistenze dei
magistrati «dà in un pianto dirotto»;
e confessa d' essere non solo uno dei colpevoli, ma il più colpevole
di tutti; confessa «purché
quanto è per dire rimanga segreto, e quel che ha tirato le bastonate
non vada incontro a tutto il rigore della giustizia e trovi pietà
anzi che vendetta».
Diciamo subito che quand'ebbe cominciato a parlare, non si tenne più,
e non solo confessò, ma per dirlo toscanamente svesciò tutto; e pur
troppo gli sfuggirono di bocca due nomi, come di partecipi al fatto:
di Francesco Ferrari e di Giuseppe Guidetti, tutt'e due di Reggio,
che subito [018]
furono arrestati, perquisiti e imprigionati. A contarli tutti,
coll'estendersi delle ricerche gli imputati crebbero a ventisette,
quattordici dei quali soffrirono per più o meno tempo la carcere; ma
corsero il rischio della galera, e parvero meritarla, soltanto Conti,
Ferrari e Guidetti (06).
Il
Conti fece la sua deposizione, rifacendosi da lontano, il 12 e 13 di
giugno. Una parte l'abbiamo già letta insieme. Ne trascrivo ora
altre parti, e vorrei avere spazio per tutta, tanto è viva. Dopo
aver raccontato quel che accadde dopo il giorno dei fischi, e quali
studenti erano perciò in carcere, continua così:
—
«La
mattina del 14 aprile (1842) il Corridi tornò a far lezione in
Sapienza, dopo essere stato vari giorni senza comparirvi. Al vederlo
tornare a far lezione senza aver veduto nessuna risoluzione
favorevole ai carcerati, ci fece ritenere che egli non avesse più
timore alcuno degli scolari.... e che dovesse per quei disgraziati
venire qualche condanna rigorosa. Ci confermammo in questa opinione
quando si seppe che il professor Matteucci, solito fare delle
smargiassate e che una volta so che si
[019]
messe
a guardare fieramente Guidetti e Ferrari, era stato veduto in
Sapienza la mattina stessa del 14 girare per l'atrio con la mazza in
mano quasi bravazzando e mostrando di voler prendere le difese del
Corridi se si fosse tentato di rifischiarlo.... Il 15 poi, la non può
credere lo stato di dispiacere in cui era la scoleresca in codesta
mattina. Si vedevano gli scolari quasi oppressi da qualche disgrazia
girare smelensiti»
— perché si era sparsa la nuova che i carcerati sarebbero
esiliati, come fu certo la mattina dopo. I più risoluti (Conti,
Guidetti, Ferrari, Cherici, Petronici, Chiloni e qualche altro) si
radunarono per deliberare il da farsi, in una osteria fuori di Porta
Nuova. «Fattasi
dare una stanza al secondo piano, ordinarono pane, ova sode, vin
bianco e nero», poi si chiusero e cominciarono la discussione.
Prevaleva dapprima l' idea che era «generoso e preferibile un
partito aperto», non un'insidia, «Io
— racconta il nostro Conti — proponevo
di andare in una quarantina o cinquantina di scolari dei più
risoluti al Palazzo Pretorio, verso l'un'ora di notte.... in
drappelletti, metà dei quali dovevano girare dalla parte di dietro
del Pretorio sboccando dall'Arco e dal vicolo che mette nel Loggiato;
e metà dovevano entrare nel Loggiato dalla parte davanti del
Pretorio stesso, e così contemporaneamente riuniti gettarsi subito
nel Corpo di guardia e impadronirsi delle armi.... Dicevo che
bisognava anche pensare al Corpo dei Carabinieri e, presi cotesti
posti militari, una parte degli scolari doveva stare in guardia
perché nessuno andasse ad avvisare altra forza e la cavalleria; e
parte doveva salire nel Pretorio e intimorire colla minaccia d'un
fatto sanguinoso se non avessero scarcerato i [020]
detenuti.
E notavo a questo proposito che il carattere pauroso altra volta
dimostrato dalla Polizia mi dava guarentigia che non sarebbe seguito
alcun disordine né massacro, perché avrebbero subito messi fuori i
detenuti.»
La
proposta non dispiacque ai presenti. Ma messisi a contare questi
quaranta o cinquanta «risoluti»,
conclusero che per un'azione così rischiosa non c'era da sperare di
trovarli. Bisognava dunque pensare ad altro. La seconda proposta che
venne in discussione fu di «bastonare i professori contrari», come
Matteucci, Bonaini, Obici, e specialmente Del Rosso che aveva
dichiarato di non riprendere le lezioni finché il Governo non avesse
dato sodisfazione ai professori. Il Conti si dichiarò contrario
«alle
reazioni private, che si assomigliano alle frodi e al tradimento
degli assassini». Tutti consentirono in teoria, ma sostennero che in
pratica era una necessità: «così i professori appena avessero
inteso che taluni di essi erano stati bastonati, avrebbero proceduto
con giudizio». Fu allora deciso che al Del Rosso penserebbe il Conti
«pratico della casa» con Ferrari e Guidetti; e Cherici starebbe
fuori di guardia. Altri avrebbero pensato ad altri professori, per la
strada, cogliendo il momento opportuno. Vennero anche ai particolari:
il Del Rosso doveva prenderle sulle spalle, mentre era seduto; gli
altri alle gambe finché cadessero. E con questi nobili propositi
l'adunanza si sciolse.
La
sera tardi Conti e Cherici andarono al Caffè dell'Aquila, e c'erano
ad aspettarli Guidetti e Ferrari. Il Conti aveva il bastone d'un
compagno, «di canna da zucchero color chiaro, grosso quanto una
moneta di [021]
cinque paoli, e anche meno, nella parte più grossa; senza pomo, con
ghiera». Anche Ferrari e Guidetti avevano il bastone: Cherici no
perché doveva restar fuori di guardia. Il Conti col Cherici lasciano
gli altri al Caffè, e vanno presso la casa Del Rosso, per esplorare.
Il Conti sale su, con la scusa di domandare cose di studio, e ci
trova altri scolari. Sceso, lascia lì di guardia il Cherici,
dicendogli chi c'era e che stesse attento finché tutti fossero
usciti; poi torna da Guidetti e Ferrari con Corradini, che incontrò
per la strada, e dal quale si fece prestare il berretto «di velluto
color azzurro scuro, schiacciato, con tesa piccola della stessa
roba». Ma il berretto non bastava per un travestimento, e dové
tornare nella sua camera a perfezionarlo. Lasciamo che racconti lui:
— «Entrato
in camera accesi il lume e con un sughero, o tappo di sughero di
bottiglia che avanti ero andato a chiedere e farmi dare in grazia,
senza dirne che cosa ne volevo fare, alla bottega di Misoch da uno di
quei garzoni che vendono liquori pasticcini e altro, lo bruciai alla
fiaccola della lucerna, mi feci baffi e pinzo a traverso il mento con
quel nero di sughero carbonizzato, e quindi spento il lume tornai giù
e mi riunii a Guidetti e Ferrari e s'andò verso la piazza dei
Cavalieri».
—
Andando,
s'imbatterono in altri scolari, ai quali dissero: «Si
va là».
E quelli risposero : «Bene,
e noi si cerca».
Cioè
cercavano, o fingevan di cercare, professori da bastonare. Ma la
verità è che soltanto il Conti l'aveva presa sul serio. Come i
congiurati furono in Via Santa Caterina, si fermarono in distanza ad
aspettare che da casa Del Rosso fossero usciti tutti, e il Conti
fissò e ripeté agli altri tutte le disposizioni strategiche.
[022]
«Arrivati
alla porta del Del Rosso, Ferrari picchiò o suonò. In questo
momento Guidetti disse: Che si farà?, e Ferrari pure rispose: Che si
farà?... Ma in quel momento fu aperto l'uscio dal ragazzo di casa
del professore».
Entra primo Ferrari, secondo Conti, terzo Guidetti. Il Ferrari
domanda: «Si
può passare dal signor professore?»
E la serva: «Passino,
passino».
Intanto il Cherici di fuori li richiama indietro, ma troppo tardi,
ch'eran già all'uscio del professore. I due dicono al Conti «Va
tu avanti».
E il Conti entrò primo.
«Il
professore facendo l'atto di vedere chi era, mi porse il capo, e io
vibrando il colpo diretto sulla spalla, lo presi invece nel capo e mi
parve che lo cogliessi attraverso il cranio. Egli esclamò: Oh Dio!,
e si gettò sulla poltrona alzando il braccio. Io vedendo che tentava
di alzarsi gli detti un'altra bastonata su un braccio, che però fu
leggiera. Poi tirai delle bastonate sul lume per spezzarlo, e sul
tavolino per buttarlo addosso al professore onde fargli impaccio
perché non si alzasse. Il lume andò in terra, e allora detti
qualche altro colpo alla rinfusa sul tavolino, e forse avrò
chiappato anche il Professore. Io ero veramente impazzito e fuori di
senno, perché creda che quell'azione che sapeva di tradimento mi
conturbava».
Al
primo colpo, Ferrari e Guidetti avevan preso la porta, e via. Il
povero professore, riuscì ad alzarsi a fatica, e ad afferrare il
Conti pel soprabito «color marrone, di panno zèffiro»,
strappandone due occhielli; ma il giovane si svincola e con una
spinta lo ributta per terra. Poi, lasciamolo dire a lui, «scappai
e infuriato com'ero detti qualche colpo a delle donne che trovai per
[023]
le
scale col lume in mano».
Corso a casa si lavò i baffi e il pinzo, e poi subito «al Basso
Mondo a mangiare un piatto di maccheroni», per procurarsi un alibi.
Come lo rivedo! Anche a lezione era così, quando si infervorava.
Picchiava sul panteista e sul materialista — «il
materialista separa, il panteista confonde»,
te ne ricordi, amico Melli? — con la stessa furia che quella sera
sul professore, sul lume, sul tavolino e su quelle povere donne che
trovò per le scale col lume in mano....
L'interrogatorio
continua, e possiamo ancora spigolame qualche tratto caratteristico.
Per esempio, interrogato, dice d'aver sentito parlare d'una specie di
società segreta tra gli scolari, «diretta
a difendere le offese che qualche scolare potesse ricevere
specialmente dalla Polizia; giacché quando quel carabiniere sulla
Piazza di San Niccola si espresse che voleva far teste, la cosa
dispiacque; e siccomie non fu il carabiniere castigato di questa
minaccia, mentre castigati furono gli scolari, fu detto che se il
governo non pensava alla difesa degli scolari, bisognava che ci
pensassero gli scolari da sé».
E
parlando del suo carattere focoso, porta quest'esempio: «Una
sera per poche parole piccanti che mi disse il Bastianoni che è
stato sempre ed è mio amico, e per essersi lui subito chiuso nella
sua stanza dicendo — con te non ci si può discorrere —, io mi
irritai, e dalla mia camera andando all'uscio della sua e preso da un
atto di rabbia detti un forte pugno all'uscio e lo sfondai, e da
quello sfondo vidi il Bastianoni che si era quasi impaurito e mi
disse: — Ora che vuoi fare? —, e io mettendomi e, ridere gli
dissi: — Anche tu dirmi queste parole ! Se sei dispiacente della
bussola, te la pagherò io.
— [024]
Egli
aprì e si cominciò a discorrere fra noi facendo conversazione fino
al tardi».
E racconta anche come fu che si svegliò da quella pazza esaltazione
delle bastonature. Fu quando sentì dire dal prof. Montanelli: «Se
il Del Rosso muore, c'è la galera a vita».
«Non
può credere
—
confessa al giudice —
che
specie mi facesse questo discorso; e cominciai allora ad avvedermi
dell'abisso nel quale io impensatamente mi ero gettato».
Molto
diversi gli altri due, Ferrari e Guidetti. Il Ferrari dà risposte
secche, recise. Non ha visto né conosciuto nessuno, non sa nulla di
nulla, «gli pare di non aver mai parlato con Augusto Conti». Il
Guidetti è anche più taciturno: in tre interrogatorii non gli
levano una parola di bocca: il Conti «lo
conosce forse di vista»,
ma senza sapere come si chiama. E anche il Cherici: «Fossi
io solo, la chiederei da me la pena alla giustizia. Mi puniscano, ma
il rivelatore non lo posso fare»
; e non ha altro da dire. Erano veramente, i tre reggiani, benché di
fatto meno colpevoli, d'altra tempra. Probabilmente non era la prima
volta che si trovavano a quei ferri con la polizia, e sapevano
regolarsi meglio del sanminiatese ingenuo e impetuoso.
E
ora che sappiamo tutto, potremmo immaginare che la cosa finisse male,
e veramente c'era di che. Non dirò minutamente le varie fasi del
processo economico e dell'ordinario, anche perché potrei
imbrogliarmi tra questo ammasso di fogli per la mia fortunata
inesperienza di cose legali. Basterà dire che il governo
considerò e [025]
definì l'affare giudiziario col buon senso e anche col buon cuore,
fino a nascondere che si trattava di agguato e di ferimento. Per
consiglio dello stesso Bologna presidente del Buon Governo (nella sua
relazione finale al Granduca) si stabilì d'usare la formula che il
Conti e gli altri erano stati «riconosciuti debitori di contegno
diretto a turbare la tranquillità e l'ordine della Università».
Non si poteva essere più paterni di così! Dei dieci che ai primi
d'ottobre erano ancora carcerati, gli «esteri», cioè Ferrari,
Guidetti, Corradini, Chiloni e Monzani furono rimpatriati; Conti,
Cherici, Petronici, Castelli e Talinucci di Barga fatti
«riaccompagnare a casa»: dice proprio così, frase paterna anche
questa. Tutti però furono esclusi dalle Università Toscane; e
questo era troppo naturale. Il Conti non tentò nulla per sé; ma
turbato dal rimorso d'aver compromesso gli altri parlando troppo,
sicché non gli fu di sollievo neppure il ritorno in famiglia,
indirizzò al Bologna una supplica perché ai compagni fosse concesso
di tornare a finir gli studi, se non a Pisa, all'Università di
Siena. Non credo che fosse esaudito. Quanto a sé, potè essere
ammesso al Reale Liceo di Lucca, dove era allora una specie di
Facoltà legale, e il 23 luglio del 1844 vi conseguì la laurea in
legge (07).
[026]
Non
ho bisogno di concludere con la morale, e neppure di difendere il
Conti. La sua colpa fu grave, e nessuno lo sentiva più di lui, che
non se la perdonò mai. Una cosa è chiara, che l'uomo di carattere
quale il Conti si dimostrò poi sempre, era già negli atti di quei
processi. Un carattere non sempre volto a cose buone allora, ma
schietto e forte, e un coraggio a tutta prova. Il lettore ricorderà
che la fischiata al Corridi forse, dopo tanti accordi e minacce,
andava in fumo, se al momento opportuno non finiva col prenderne il
Conti l'iniziativa. E tutti vani sarebbero restati i feroci propositi
e le congiure per bastonare tanti professori, se non ne bastonava
almeno uno il Conti. Dire: — era meglio che anch'egli non ne
facesse nulla — è dire una verità banale. Tra tanti che
mettevan su, che urlavano e poi scappavano o si nascondevano, ce
n'era uno che rifuggiva dall'insidia, e lo diceva chiaro; ma che
quando aveva preso impegno, manteneva. I magistrati sentirono quel
che c'era di buono in quel giovane; che c'era, specialmente, del
carattere; e gli furon benevoli. Ed ebbero ragione dal tempo. Non oso
giudicare il filosofo; ma l'uomo, il maestro, il cattolico, il
patriotta si, posso giudicarli, e dire che furono bronzo schietto.
Come fu il portabandiera a Curtatone, così fu il portabandiera nella
buona battaglia — tra i fantaccini c'ero anch'io — contro la
trista setta che per disfare l'Italia proclamò il «né eletti né
elettori». E anche in Parlamento, dove lo mandarono i suoi
Sanminiatesi, spiegò la bandiera di cattolico e d'italiano, con
sincerità di cuore, senza rispetti umani, senza [027]
bassi
opportunismi parlamentari, sempre con carattere e coraggio; virtù
che gli valsero non solo il rispetto, ma l'affetto di avversari come
Nino Bixio. Sarebbe da augurare che avesse imitatori. Ma lo
conoscono? O riconoscono l'opera sua? Qualche mese fa, andato una
sera a sentire un deputato cattolico che per invito d'una
Associazione cattolica lo commemorava, dovetti accorgermi che
l'oratore non si ricordava, o non voleva ricordarsi, che, mezzo
secolo e più prima di lui, Augusto Conti era stato deputato
cattolico nel Parlamento italiano. Mai come quella sera mi son morso,
le mani per non poter gridare: — Domando la parola ! —.
NOTE
(01)
Della
Vita e delle Opere di Augusto Conti.
Firenze, Alfani e Venturi, 1906.
(02)
Vedi specialmente Archivio
Segreto del Buon Governo,
19 e 20, n. 60, parte 1a, 2a, 3a (1842). Ma bisogna vedere anche i
precedenti del fatto al n. 53 e altrove.
(03)
«Della
vita e delle opere»
del prof. Del Rosso scrisse F. C. Bonamici fin dal 1859; ma
dell'argomento che ci occupa c'è appena un cenno.
(04)
Grave
è il rapporto di Humbourg (23 aprile): «Si parla e si ride
dell'esame di tre laureandi che già rigettati come incapaci, furono
ieri ammessi a nuovo esperimento. Uno degli esaminatori taceva, altri
facevano interrogazioni facilissime e uno finalmente suggeriva parola
per parola le risposte. I tre giovani sono già dottori, e lo saranno
fra due mesi molti altri di uguale calibro; sembrando pur troppo che
sussista e sia pervenuta all'orecchio dei professori la voce che
minaccia chiunque di essi fosse per osare di dare voto contrario».
C'è qualche somiglianza con certi «esami di guerra» di tempi più
vicini a noi.
(05)
Una delle iscrizioni diceva precisamente così: «Carmignani in Arno;
Bonaini maestro di
(06)
Tra i carcerati furono Vincenzo Corradini, Luigi Chiloni, Feliciano
Monzani e Vincenzo Dallori, anch'essi di Reggio; poi il Cherici di
Bibbiena, il Petronici e il Castelli di Rocca San Casciano: più
della metà dunque non toscani. Di Firenze il solo Augusto
Michelacci; di San Miniato anche il Pini. Fa maraviglia di non
trovare tra gl'inquisiti Arcangelo Fucini di Limite, che è sempre
descritto come
uno degli studenti meno tranquilli: «non sogna
che pugni e prepotenze», dice un rapporto; e girava di notte a
spaventare i pacifici cittadini, a sonare i campanelli di medici e
levatrici, insomma era un
vero monello. Della famiglia di Neri?
Non saprei dirlo.
(07)
Alla fine di settembre tutto era finito. In quattro mesi e mezzo,
indagini varie e complicate, interrogatorii d'oltre cento studenti,
due processi. Oggi ci vorrebbero due anni, almeno. Davvero — come
ricordo altrove con le parole del Carducci — quei magistrati e
impiegati della vecchia Toscana erano della brava gente che non
rubava la modesta paga.