a cura di Francesco Fiumalbi
INTRODUZIONE
Molti di noi hanno
avuto la fortuna di ascoltare le storie dell’infanzia dei propri nonni. Come
vivevano, come giocavano, come andavano a scuola, la pagella, ma anche del
sabato fascista e della camicia nera. E poi la guerra, quel grande spartiacque
che ha segnato il passaggio fra la “vita di prima” e la “vita di dopo” e che
per molti ha segnato il passaggio dalla spensieratezza dell’infanzia alla
consapevolezza dell’età adulta. Nella maggior parte dei casi si tratta di un
patrimonio di memoria orale che rischia di andare perduto ogni giorno di più.
Per questo motivo abbiamo scelto di intervistare Giuseppe Chelli, classe 1933,
che ha vissuto l’infanzia durante gli ultimi anni del fascismo e ricorda molto
bene la vita del tempo.
Beppe, durante gli ultimi anni del fascismo, tu eri un
bambino. Come sei entrato in contatto con il regime?
Sono venuto a contatto
col regime fascista nel 1939, cioè quando ho cominciato ad andare a scuola. Di
prima non potrei e non posso dire nulla se non una sbiadita immagine di un
fantoccio tutto nero portato per le vie di San Miniato e bruciato notte tempo. Forse era il Negus sconfitto
nella guerra di Abissinia nel 1936: avevo appena tre anni!
Il regime, per la sua natura
totalitaria, cercò di regolare anche il mondo scolastico, tant’è che una delle
prime riforme dopo la marcia su Roma fu proprio la cosiddetta Riforma Gentile
del 1923. Quanto penetrava il regime nelle aule del tempo, specialmente in un
contesto di provincia come era il territorio sanminiatese?
Allora, intanto devo
dire che la scuola l’ho iniziata a Roffia, dove sono rimasto per il primo
triennio. La quarta e la quinta, invece, le ho fatte a San Miniato.
A Roffia c’era una
sola pluriclasse del corso elementare
inferiore e si trovava esattamente sopra il Circolo, al primo piano di quello
stabile che c’è ancora oggi. La maestra unica era la signorina Luigia Simoncini
che ogni giorno da San Miniato veniva a piedi a Roffia e si tratteneva fino al
pomeriggio, forse perché la terza classe aveva il secondo turno. Non ricordo
che la maestra ci facesse apologie del regime, ma nel libro di testo in molte
parti venivano proposti brani e immagini inneggianti a modi di vita circa
l’amor di patria, la bellezza del lavoro. Ricordo l’immagine dell’aratro con il
vomere lucido, che era una delle immagini più eclatanti per illustrare il
concetto che il lavoro rende belli a differenza del vomere inattivo che
arrugginisce. E poi veniva mostrata la fierezza del bambino che faceva azioni
coraggiose o le bambine che avevano cura della casa e soprattutto del
giardinetto attorno che curavano con fiori e alberelli.
Ma il sabato…
Solo il sabato, che
chiamavamo il sabato fascista la maestra
pretendeva che si venisse in classe vestiti a seconda dell’età da Figli della lupa (prima e seconda
classe) o da Balilla (terza).
In cosa consisteva questo
abbigliamento?
Per i figli della Lupa
la montura era questa: scarpe nere, calzettoni grigio verde con risvolti neri
fini al ginocchio, pantaloni grigioverde corti, camicina nera con il cinturone bianco che raccoglieva le due
bretelle bianche incrociate. Nel mezzo alle bretelle una M di metallo lucido,
mentre in testa era d’obbligo portare il fez, un cappello nero con una nappa
appesa ad un lego. Anche il cappello aveva
in fronte un’insegna, un piccolo simbolo: non ricordo bene se fosse
stata l’immagine del Duce con l’elmetto o la scritta Dux. Oppure due teste di
lupa.
Anche le bambine, le Figlie della Lupa (prima e seconda
classe), avevano la loro montura. Scarpe con il laccio sulla fiocca, calzettoni
bianchi, sottanina scura (blue/nero), camicetta bianca con dei fregi e un
fiocco bianco in testa.
La montura da Balilla o da Giovane italiana non cambiava molto e si cominciava a portare dalla
terza classe. Per i primi l’unica differenza era che al posto del cinturone e
bretelle c’era un fazzoletto celeste avvolto al collo, con le cocche racchiuse
nel davanti da un anello con la testa del Duce con l’elmetto. Le seconde
avevano di diverso la sottana che era pieghettata e di colore blue e mi pare
che invece del fiocco portassero un cicì bleu sulle 23.
Quindi il sabato, così vestiti…
Appena arrivati
davanti la scuola, la maestra ci radunava ed in fila per due si saliva in
classe cantando Giovinezza. Dopo la
consueta preghiera si faceva la lezione
ascoltando le trasmissioni La Radio per
le scuole, oppure leggendo racconti patriottici e cantando canzoni
inneggianti il Duce o altri avvenimenti storici. Poi cominciava la ginnastica.
Se pioveva o era troppo freddo si faceva in fondo all’aula, se la stagione lo
permetteva si andava fuori, in campagna. In fila per due si attraversava le vie
piene di polvere in estate e motose quando pioveva cantando la canzone del
Balilla (Fischia il sasso/il nome
squilla/del ragazzo di Portoria/ sta l’intrepido balilla/ sta gigante nella
storia…) oppure quello dei Figli della lupa: Siamo i figli della lupa / dell’Italia il primo fior / e donato
abbiamo il cuor / al suo grande Condottier...). Poi si scioglievano le
righe e di corsa sull’argine a fare la corsa campestre. Il ritorno a scuola si
faceva in libertà attraverso le prode o i campi di erba medica.
Cosa ti ricordi della scuola? Ve lo davano il famoso
olio di fegato di merluzzo?
Certo! Tutte le
mattine prima di iniziare la lezione veniva distribuito a tutti con un
cucchiaio e subito dopo una tazza di latte bello caldo che Pia di Mero, la
moglie del carraio che stava sotto la scuola e che faceva la custode,
riscaldava in un pentolone in casa sua. Ci dicevano che ce lo mandava il
Direttore da San Miniato!
Spesso venivano indette gare o
concorsi a tema nelle scuole…
Sì, è vero. A volte si
partecipava a concorsi di pittura o di altre esibizioni oppure a gare di
recitazione. In terza venne indetto un concorso di recitazione di poesie fra
tutte le classi delle scuole elementari, medie e avviamento del Comune, che si
tenne a San Miniato.
La maestra scelse me
per partecipare alla gara e mi fece imparare una poesia che diceva così: Padre e figlio si alzan presto / Chi dei due
sarà più lesto? / L’un la falce dal letto stacca / l’altro il suo moschetto /
L’uno miete / l’altro spara / così a vivere s’impara… Il continuo non lo ricordo.
Il giorno fissato per
la gara, un sabato, tutti i ragazzi delle scuole del comune si presentarono
alla sede della GIL a San Miniato, dove ora è il Museo della Memoria. Di fronte
ad una commissione, rigorosamente in camicia nera, uno ad uno, i ragazzi
recitarono la poesia imparata. Io fui tanto bravo che mi classificai primo tra
le scuole elementari! Per questo fui inviato a Pisa assieme agli altri
vincitori di categoria per la gara provinciale. La maestra mi fece imparare tre
poesie e tutti i giorni dovevo recitarle davanti a tutti gli alunni. Finalmente
venne il giorno di andare a Pisa e la maestra mi disse che se mi facevano
scegliere la poesia dovevo dire quella… di cui ora non ricordo il nome. Non ero
mai montato sul treno e a Pisa mi ci accompagnò mia madre. Stetti tutto il
tempo al finestrino a vedere correre i campi, le case, i paesi: non mi
raccapezzavo! Successe però che sbagliammo orario e quando si arrivò a Pisa al
Giardino Scotto la audizione dei ragazzi della provincia era terminata e la
commissione stava per andarsene. In fretta e furia mi fecero dire una poesia a
piacere, ma dall’emozione non dissi quella che mi aveva consigliato la maestra.
E così finì la mia corsa, altrimenti, forse, sarei potuto andare a Roma a
recitare davanti al Duce in persona!
Tutte le attività ordinarie o
straordinarie, comunque, cercavano di coinvolgere i bambini nella vita del
regime, dando loro l’idea di far parte di un qualcosa di importante. A proposito
di cose importanti, ti ricordi quando l’Italia entrò in guerra?
Certo! Avevo appena
finito la prima elementare. Non ricordo chi o come, ma ci venne detto che quel
pomeriggio dovevamo andare tutti a San Miniato in piazza dell’Impero, l’attuale
piazza del Popolo, perché parlava Mussolini a tutta la nazione. Di certo non ce
lo disse la maestra, perché la scuola era finita il 30 maggio, mentre Mussolini
parlò il 10 giugno 1940. Ricordo esattamente che in quel pomeriggio, poco dopo
le ore 18, mi trovavo in piazza dell’Impero gremita di persone in camicia nera,
ma anche vestite in abiti normali o da lavoro perché tanti smisero di lavorare
appositamente. C’erano pure i preti. La gente occupava anche via Ser Ridolfo e
via Augusto Conti, tanto c’erano gli altoparlanti che permettevano di sentire a
distanza. Ce n’erano almeno due a forma di imbuto, che uscivano dalle finestre
del palazzo Cheli-Giannarelli ed io con i miei amici – forse uno era Mario
Ciarini – stavamo seduti sulla soglia del portone del palazzo, proprio dove ora
c’è l’ingresso di Essenza, accanto alla farmacia. Ricordo benissimo che la
gente applaudiva, gridava Duce! Duce!
Duce! Tutto come fosse una festa, una vincita, uno spettacolo divertente.
La mia età non mi permetteva di capire il pericolo che si andava delineando.
Quel giorno fu per me e per i miei amici una serata di allegria: ce ne fossero
state di così divertenti! La “festa” durò anche dopo la fine del discorso, con
la gente che si trattenne a parlare, a
cantare e a schiamazzare per San Miniato fino a buio. Solo a sera tardi andando
in piazzetta del Comune con i vicini di casa a prendere un po’ di fresco,
ricordo bene che mia madre disse: nella confusione si sono dimenticati di
accendere il faro in rocca. La ragione poi sapemmo che non fu una dimenticanza.
Il momento in cui Mussolini fece la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940
Eh sì, fra le disposizioni dello
stato di guerra c’era anche l’oscuramento notturno. Torniamo alla scuola…
Finita la terza
elementare a Roffia, passai alle scuole elementari di San Miniato e la maestra
di quarta tutta maschile era la signora Ada Capponi, sorella di Ugo, un pezzo
grosso del fascio sanminiatese. Il clima qui era diverso! A scuola si parlava
della patria in guerra, di stare attenti con chi si parlava e non parlare mai
male del Duce e del fascio. Invece dell’olio di fegato di merluzzo e della tazza
di latte ci davano la refezione. Nello
stanzone all’ultimo piano c’era il refettorio e a fine delle lezioni si andava
a desinare. Il pranzo consisteva in una ciotola di minestra di fagioli, di
verdura o brodo vegetale o di carne con pasta e spesso il riso. Per secondo una
bella fetta di pane con marmellata e sempre una frutta di stagione. Ricordo
benissimo che un giorno c’era la minestra in brodo con riso e pezzi di
cavolfiore. Casualmente mi era toccato un pezzo grosso di cavolfiore che era un
cibo raro in casa mia e allora mangiai tutto il riso e il brodo lasciando per
ultimo il cavolo pensando che fosse un pezzo prelibato. Che delusione quando lo
misi in bocca: era stracotto: una poltiglia!
Quasi ogni giorno la
maestra ci faceva sentire le trasmissioni La
Radio per la scuola e a volte ci faceva fare il tema su quello che avevano
trasmesso. Oltre al ricordo nitido di uno di questi eventi conservo ancora il
tema ed il disegno che la maestra Ada ci fece fare dopo aver ascoltato la trasmissione
sulle rondini. Ecco cosa scrissi ed il disegno che feci.
Disegno di Giuseppe Chelli
Devo però confessare
che il disegno non mi veniva bene e allora mi dette una grossa mano mio fratello
Carlo. La Patria ovunque! La maestra volle la cornice avesse i colori della nostra bandiera, in
omaggio dei soldati al fronte. Molte erano le canzoni che ci insegnava e tutte
inneggianti la guerra, il valore dei soldati, la grandezza dell’impero. Alcune
già le sapevo come La Canzone del Balilla
o Giovinezza. Altre erano Faccetta Nera, l’Inno dei sommergibili, la Canzone
di Giarabub (Colonnello non
voglio pane / dammi piombo per il mio
moschetto / C’è la terra del mio sacchetto che per oggi mi basterà…).
Com’era il sabato fascista a San
Miniato? Che differenza c’era rispetto a Roffia?
Il sabato mattina non
ricordo se andavamo a scuola in montura, però il pomeriggio si doveva andare
“vestiti” alla sede della Gioventù Italiana Littorio (GIL), sotto i chiostri di
San Domenico. Da lì, se non c’erano manifestazioni particolari, si andava sul
piazzale a fare la ginnastica divisi per categoria e sesso. Gli istruttori
erano gli avanguardisti oppure quelli del GUF (Gruppo Universitari Fascisti)
che avevano la camicia nera di seta, i pantaloni alla zuava e mi pare le fasce.
Anche gli avanguardisti avevano i pantaloni grigioverde e la camicia nera con
in capo il fez. Devo dire che molti istruttori appena passato il fronte,
cambiarono camicia e alcuni spergiuravano che non erano mai stati fascisti.
Almeno una volta all’anno le “prove ginniche” si concludevano con il Saggio
Ginnico (maschile e femminile e per categoria) al campo sportivo di Santa Maria
a Fortino di fronte a tutti i capoccioni
fascisti, alle persone ed agli invitati da parte del PNF.
Si poteva non andare a queste
manifestazioni?
Erano obbligatorie,
come la scuola. Se non andavi, la prima volta ci passavano sopra. Però, se un
ragazzo si assentava una seconda volta, veniva inviata una lettera dal
comandante della Coorte alla direzione della scuola, in modo che avvertisse il
genitore del ragazzo dell’assenza!
D’estate, finita la scuola, cosa facevano i bambini e
i ragazzi? C’era anche a San Miniato una colonia elioterapica?
In estate c’erano i campi solari che, qui a San
Miniato, si facevano alla Villa Antonini (attuale Caserma della Compagnia dei
Carabinieri). Non ricordo in quale anno incominciarono e se durarono per più
anni, di sicuro ricordo quello a cui presi parte. Forse fu l’anno 1941 o 1942.
Al mattino si doveva arrivare alla Villa Anronini, ci davano una maglietta
bianca, pantaloncini corti neri e scarpe da ginnastica. Dopo l’alzabandiera,
c’era la colazione e gli esercizi ginnici: flessioni, torsioni, saltelli a
gambe divaricate e altri ancora. Poi c’era il tempo della terapia solare. Su
delle stuoie, dato che il terreno era ghiaioso, ci si stendeva a prendere il
sole con solo pantaloncini ed un
cappellino per il capo. Al termine si andava a fare la doccia, tutti nudi, con
le assistenti che ci insaponavano e poi ci asciugavano. Di tutte le assistenti
(credo fossero maestre) io ricordo Paolina Neri. Dopo il pranzo ci facevano
fare un riposino sulle brandine e poi finivamo la sera con giochi liberi:
rimpiattino, rubabandiera e canti, ovviamente fascisti. Con l’ammaina bandiera
finiva la nostra giornata al campo solare e si ritornava ognuno a casa nostra,
a piedi, come eravamo venuti. E così tutti i giorni, escluso la domenica, per due
settimane, quanto durava un turno. Non ricordo se anche alle bambine erano
riservati dei turni o se fossero solo
per i figli della lupa.
Quando la guerra cominciò ad
andare male e specialmente dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, cambiarono
le cose?
L’ultimo anno delle
elementari cominciò già con un clima nuovo rispetto a come si era concluso
l’anno precedente: l’infatuazione fascista era quasi scomparsa dalla scuola! Il
maestro Mario Zucchelli si occupava e preoccupava soprattutto di insegnarci le
materie, senza troppo “fascismo”. Da poco era successo il 25 luglio e ancora
più ravvicinato ai primi giorni di scuola l’8 settembre. Mi pare che per un po’
non si andasse più il sabato alla GIL. Forse ci tornammo qualche volta verso la
fine dell’anno 1943 o comunque quando si restaurò la RSI.
Una volta radunarono
tutte le classi quinte del plesso e ci insegnarono una nuova canzone, stavolta
di origine tedesca: Lili Marleen. Mi ricordo che cominciava così: “Tutte le sere/sotto quel fanal/presso la
caserma/ti stavo ad aspettar..”. Ce la facevano cantare per omaggiare i
tedeschi che erano venuti ad aiutarci contro i nemici americani e inglesi.
Come arrivò la guerra? Cosa ti
ricordi dell’inverno e della primavera fra il 1943 e il 1944?
Alla fine dell’anno
1943 cominciarono i bombardamenti delle città vicine e dei ponti: quello della
Motta a Marcignana, quello di Fucecchio e quello della ferrovia . San Miniato
pareva sicura e quindi da tutti i paesi e città bombardate (Pisa, Pontedera,
Empoli e Livorno specialmente) arrivarono tanti sfollati. I figli dei cittadini
furono integrati con noi, tanto da diventare una classe di oltre 40 alunni, fra
cui si contavano tanti ripetenti da anni. Accanto a casa mia venne ad abitare
una famiglia di livornesi: la madre si chiamava Cecilia ed aveva tre figli
giovani. Questa donna non sapeva come sfamarli, dal momento che la tessera
annonaria non gli bastava. Allora lei ogni mattina partiva con una valigia
vuota e andava con il treno a Livorno o verso Firenze. Quasi ogni giorno i
treni venivano mitragliati e quindi si fermavano e i passeggeri scendevano.
Allora lei rimaneva sul treno da sola, scorreva tutti i compartimenti e quando
occhiava una valigia in cui era certa che fosse piena di qualcosa lasciava la
sua e prendeva quella. Ci trovava sempre qualcosa: spesso roba da mangiare, a
volte vestiario. Tornata a San Miniato apparecchiava una cena abbondante e
chiamava anche noi a parteciparvi, perché mia madre spesso gli allungava
qualche filino di pane.
Devono essere stati momenti
davvero difficili, una vera lotta per la sopravvivenza…
E’ stata davvero una
lotta per la sopravvivenza. Però noi eravamo fortunati, il pane non ci mancava!
Lo zio prete di Roffia, Don Lionello Benvenuti, via via ci faceva arrivare
sacchetti di farina con cui mia madre faceva 4/5 scole di pane che andavamo a
cuocere nottetempo al forno della Pippotta, vicino al ricovero. Avveniva
questo: io andavo avanti rasente i muri e, quando non vedevo nessuno, facevo
cenno a mio padre di venire con la tavola del pane sulle spalle. Tappa dopo
tappa si arrivava al forno.
Ti è mai capitato di assistere ad
un bombardamento o comunque ad un’incursione aerea?
Con la primavera, le
incursioni aeree si intensificarono e quindi appena suonava la sirena si doveva
lasciare la scuola ed andare fuori. La nostra classe infilava il vicolo di
Gargozzi e si fermava in fondo, sul muricciolo, aspettando il fine allarme
fumando le vitalbe. Succedeva anche che
in classe ,qualche ripetente di 13 o 14 anni, se non aveva più voglia di
stare a scuola, si mettesse a fare il verso della sirena con le mani alla
bocca… e allora tutti via di gran carriera in Gargozzi! Il maestro ci urlava
dietro che non era vero nulla, che non c’era nessun allarme, ma noi via di corsa che non ci pareva vero di
uscire dalla scuola! Il maestro, affacciato alla finestra che dava su Gargozzi,
ci chiamava a rientrare e spesso i ragazzi della borghesia sanminiatese gli
obbedivano, anch’io per la verità, ma quelli grandi prendevano i vicoli e
andavano a casa.
Ad un certo punto il fronte fu
vicinissimo…
La pagella aveva nel
frontespizio immagini di propaganda con l’acronimo del fascio, “PNF”, sui cui
si scherzava dicendo nel giorno della consegna che ci davano Pane, Noce e
Fisisecchi! L’anno scolastico finì mi pare a maggio e fummo tutti promossi
senza dare gli esami. La guerra si avvicinava, anche se per il momento non
avvertivamo i pericoli che ci sarebbero capitati. Eravamo ragazzi, ma meno
vogliosi di ruzzare o di allontanarsi da casa. Spesso si andava alla Madonnina
al Riposo a vedere bombardare Empoli. Oppure la notte andavamo sul prato del
duomo a vedere cadere i bengala su Pontedera, Pisa e sentire gli schianti dei
bombardamenti. Era rischioso perché era entrato in vigore il coprifuoco e alle
sette, in pieno giorno, si doveva stare chiusi in casa. Se passava la ronda dei
polizei, ti portavano alla casa del fascio che era nel palazzo oggi del Dott.
Piccolo! Si era già vicini all’estate e allora stare chiusi in casa era un gran
sacrificio.
Ricordi qualche episodio di questi
tedeschi impegnati a fare servizio d’ordine? Come si comportavano con la
popolazione?
Noi avevamo cambiato
casa e si era tornati in via Umberto I (oggi via Rondoni) dove attualmente c’è
un terrazzino. La casa però aveva anche una finestra che dava in via Del Bravo (oggi) e quindi si
poteva vedere tutta la piazza Buonaparte. I polizei non volevano neppure che si
stesse affacciati alle finestre a frescheggiare e parlare da finestra a finestra, ma la gente se ne fregava e stava
alle finestre.
Una sera i polizei
cominciarono a sbraitare di andare dentro, ma improvvisamente partì una
pernacchia talmente grande che la sentimmo tutti scoppiando a ridere!
Forse fu uno che
abitava nel palazzo dov’è la lapide che ricorda Napoleone a San Miniato.
Incattivitisi, i polizei cominciarono a sbattere con il calcio dei fucili la
porta, a sparare verso le finestre, ma tutto inutile. Allora i polizei si
radunarono davanti alla chiesa di San Rocco, per ripararsi, ed uno tirò fuori
una bomba a mano con l’idea di lanciarla contro il portone della casa presa
d’assalto. Forse sbagliò a contare per lanciarla, forse un difetto della bomba…
sta di fatto che la bomba gli scoppiò in mano amputandogliela! I polizei, tutti
impauriti, soccorsero immediatamente il collega ferito e lo portarono a braccia
all’ospedale, che era lì vicino. Tutto questo tra le grida di gioia, le risate
e batter di mani di tutti quelli che avevano visto dalle finestre.
Capitava anche che
durante il coprifuoco girassero pattuglie tedesche alla ricerca del cibo e
trovando tutto chiuso si accanivano contro saracinesche, porte, urlando e
minacciando. Una sera, in casa eravamo solo io e mia madre. I tedeschi,
risalendo via Del Bravo, urlavano e danneggiavano tutte le porte. Mia madre, impaurita che
arrivassero anche da noi, voleva farmi star sveglio, ma io appena aperti gli
occhi mi riaddormentavo con grande angoscia per mia madre. Aveva paura che se
fossero entrati in casa potessero abusare di lei. Era giovane e anche molto
bella, nonostante avesse quasi 50 anni. Meno male che arrivati in Sant’Andrea
presero viale Umberto Pontanari (oggi viale Matteotti) e calarono verso La
Scala.
Quale fu il momento in cui capiste
che ormai la guerra era arrivata a San Miniato?
Sarà stato verso la
fine della primavera che una notte si sentì una grossa deflagrazione nella
valle di Gargozzi, nella zona sotto gli orti delle monache di San Paolo. Mai
successo nulla che facesse temere un
bombardamento aereo su San Miniato, per cui quello scoppio fu interpretato come
un avviso che da lì a poco San Miniato sarebbe stata bombardata. Fu tutto un
passa parola e la gente uscì di casa. Si formarono gruppi un po’ ovunque nello
Scioa decisi a lasciare San Miniato. Una fiumana di persone, donne, uomini e
bambini si incamminarono verso il Convento dei Cappuccini sicuri di essere
ospitati. Anche noi, i miei genitori e mio fratello Carlo – che non intendeva
lasciare il letto dove era ospitato in clandestinità – fu costretto da mia
madre a venire. I frati ci accolsero in chiesa e nelle stanze adiacenti in
attesa del bombardamento. Mio fratello per un po’ stette lì, poi prese e tornò
a dormire a casa, sicuro che non sarebbe successo nulla. Infatti, sul far del
giorno ,riprendemmo la via di casa mezzi assonnati. Si seppe, poi, che un
apparecchio solitario in avaria per alleggerirsi aveva sganciato uno spezzone
in piena campagna, proprio in Gargozzi, dove non c’erano abitazioni.
Siamo a luglio e la
guerra è ormai vicina. Le incursioni erano cosa di tutti i giorni ed io appena
sentivo la sirena scappavo di casa e correvo nella valle di Calvano con mia
madre che mi seguiva in affanno. Spesso vedevo i caccia sganciare le bombe
sulla ferrovia: da sotto la pancia dell’aereo partivano due bombe appaiate, come
se fossero due bottiglie, che poi andavano a scoppiare verso Isola al ponte di
ferro della ferrovia… che non colpivano mai in pieno.
L’arrivo del fronte
produsse prima la distruzione di mezza San Miniato da parte dei tedeschi che
minarono case e palazzi. Poi l’eccidio del Duomo, l’abbattimento della torre di
Federico II, infine arrivarono gli americani!
Per 40 giorni
circa continuò il fronte e le cannonate
tedesche arrivavano dalla riva dell’Arno. Io con i miei amici sfollati nel
convento di San Francesco avevamo imparato le ore in cui i tedeschi facevano
fuoco su San Miniato. Poche cannonate sparate qua e là. Negli intervalli
correvamo già nella valle di Calvano, o di Cencione a far razzia di frutta che
quell’anno ce ne fu in abbondanza. Se per caso i tedeschi cambiavano orario e le
cannonate ci prendevano in campagna, ci si riparava nelle fosse e da una fossa
all’altra si cercava di arrivare sani e salvi al Convento. Furono mesi e mesi
di paura , ma la nostra incoscienza ce le fece vivere anche come un tempo di
grande divertimento. Poi col 1 settembre
la guerra qui da noi finì.
Cosa successe ai fascisti
sanminiatesi dopo la guerra?
Subito prima
dell’arrivo del fronte sparirono tutti i polizei. Ed anche molti fascisti si
allontanarono. Uno andò a Toiano di Palaia e tornò dopo alcuni anni. Finì a
fare il sacrestano in Duomo. Ricordo che una volta andai a casa sua e in cima
di scale aveva una gigantografia di Mussolini. Altri rimasero, a badare i
moschetti della GIL e dopo poco a vendere l’Unità casa per casa. I Turini, i
Pellicini e il prof. Novi lasciarono la Città e alcuni non ci fecero più
ritorno. Solo i figli continuarono a frequentare San Miniato.
Qualche giorno dopo la
Liberazione di San Miniato, i partigiani si misero subito a dare la caccia alle
ragazze e alle donne che aveva avuto rapporti con i tedeschi o che erano
fasciste, tagliando loro i capelli in pubblico. Anche nel rifugio di San Francesco “raparono” varie
donne, tra gli schiamazzi della gente, tra cui mia zia Beppa. Lei non aveva
fatto nulla, ma era la sorella del prete di Roffia, Don Lionello Benvenuti, il
quale fu fatto allontanare dalla parrocchia dai partigiani Baglioni, sindaco e
dal maggiore Salvadori perché aveva avuto simpatie fasciste. Fu trasferito a
Cevoli, presso Lari (oggi Casciana Terme – Lari) dove morì nel 1948.
Bellissima testimonianza, grazie!
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