di Francesco Fiumalbi
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Parlare di “Fonti” a San Miniato è cosa ardua. Nel recente libro di Delio Fiordispina e Manuela Parentini “Pozzi, fonti, cisterne e acquedotti”, FM Edizioni, gli autori hanno cercato di trattare l’argomento in un arco temporale relativamente ampio, dalla fine del ‘700 agli inizi del ‘900, senza toccare il vero nocciolo della questione.
La domanda che nasce, quasi spontanea, è la seguente: come facevano gli abitanti del colle sanminiatese a procurarsi l’acqua in epoca tardomedioevale?
Possibile che tutto l’approvvigionamento avvenisse con pozzi e cisterne?
A questo punto occorre fare alcune considerazioni di tipo logico. Chi poteva permettersi, diciamo dal XIII al XVI secolo, un pozzo o una cisterna? La risposta è abbastanza semplice: i benestanti e i dirigenti dell’amministrazione imperiale prima, e comunale poi. Sicuramente non la povera gente, che viveva per lo più in case modeste e non aveva certo la disponibilità economica e di spazio per dotarsi di tali impianti di raccolta dell’acqua. L’approvvigionamento doveva avvenire per forza, ma non attraverso questi sistemi, almeno non solo. Ecco che il nostro interesse si focalizza su alcune strutture, oggi abbandonate, che un tempo dovevano garantire l’apporto idrico alla popolazione sanminiatese: le tre fonti, ciascuna per ogni “terziere”. In questo articolo tratteremo in maniera compiuta le cosiddette “Fonti alle Fate”, lasciando ad altri interventi la trattazione delle altre.
Video di Francesco Fiumalbi
Fonti alle Fate, in realtà è una sorgente naturale, che è stata oggetto di importarti sistemazioni per un miglior sfruttamento dell’acqua. Indice di queste opere idrauliche è anche il nome con cui vengono chiamate: per quale motivo si parla di queste al plurale e non al singolare? Perché sono nominate come “Fonti” e non come “Fonte”?
Per rispondere a questa domanda, occorre spiegarne il funzionamento. La sorgente vera e propria è una soltanto, ma intorno ad essa vennero costruite strutture che, per l’epoca, erano abbastanza complesse. L’acqua che sgorgava in superficie veniva raccolta in due vasche, sistemate entro appositi ambienti laterali e coperti con volte a botte. Questi bacini facevano capo ad una stanza, dalla quale, veniva materialmente prelevata l’acqua, attraverso apposite bocche, sicuramente più di una. Sempre dalle due grandi vasche laterali venivano riempite apposite vasche più piccole, collocate anche all’esterno.
L’ipotesi avanzata da Dilvo Lotti in “San Miniato nel Tempo” circa la presenza di quattro fornici non trova conferma. La struttura si ferma chiaramente a tre arcate. La fotografia pubblicata da lui stesso a corredo della tesi non permette quell’analisi che, sul campo, ha dato esito negativo.
Schema funzionale delle Fonti alle Fate
Fonti alle Fate, fornice d’ingresso
La tesi iniziale che vede le fonti come importante struttura per l’approvvigionamento idrico è corroborata dalla dimensione e conformazione del manufatto. Vediamo perché.
Fonti alle Fate si trovano al termine di una stradella che scende al di sotto dell’attuale via Fonti alle Fate, la strada che conduce al nuovo parcheggio dotato di ascensore. E’ una zona che ha un’esposizione settentrionale, quindi meno ospitale perché meno illuminata dal sole, specie in inverno e dove batte forte la tramontana. Infatti è una zona pressoché disabitata, non coltivata e lasciata a bosco. E’ lontana anche dalle principali vie di comunicazione. Si trova quindi in un luogo isolato, inospitale e di non facile accesso. Come si spiega, invece, che intorno alla sorgente è stata costruita una struttura del genere? La risposta è facilissima: la sete.
Evidentemente le altre fonti, i pozzi e le cisterne presenti in San Miniato non erano affatto sufficienti per i bisogni d’acqua della popolazione che si serviva anche di Fonti alle Fate. E non è ammissibile nemmeno uno sfruttamento agricolo, perché l’orientamento a nord non facilita certo le coltivazioni e non sussistono canalizzazioni a tale scopo. L’unica ragione plausibile è che il borgo fortificato di San Miniato avesse maledettamente bisogno di acqua, cosicché le persone fossero disposte a camminare un bel po’ al di fuori del centro abitato pur di approvvigionarsi. Come ricordano Delio Fiordispina e Manuela Parentini nella loro sopracitata pubblicazione, San Miniato per tutto l’800 aveva problemi di mancanza d’acqua. Gli abitanti erano saliti di numero e si attestavano a 3-4000. Lo stesso numero che, Francesco Salvestrini in una recente conferenza, organizzata dall’Associazione Architettura e Territorio “Lanfranco Benvenuti”, ha indicato come popolazione del borgo di San Miniato prima della peste del 1348. I problemi di approvvigionamento idrico dovevano essere più o meno gli stessi. Da qui la necessità di sfruttare al massimo le tre sorgenti del colle. Nell’800, invece, il problema verrà affrontato con la costruzione di un acquedotto e di grandi cisterne pubbliche.
Fonti alle Fate, interno
Gionata Giglioli fa da apripista
all’esplorazione, è il più coraggioso!
Gionata Giglioli indica l’apertura che mette
in comunicazione con la sorgente con la vasca di decantazione
Come si può ben notare da quest’ultima immagine, all’interno dell’incavo con la sorgente vera e propria, vi sono anche dei piccoli stalattiti, per la precisione vengono chiamati “spaghetti”. Ingenti sono i depositi calcarei sinonimo di grande quantità di calcio presente nell’acqua, che nei secoli ha depositato sulle superfici dove scorreva.
La struttura costruita attorno alla sorgente è costituita da elementi in laterizio. Intonacata negli ambienti interni con malta, evidentemente, a legante idraulico, cioè resistente all’acqua (a differenza, per esempio, della più famosa “calce aerea”). Non è possibile datare questo manufatto, anche se dalle fonti ne abbiamo notizia fin dall’epoca medioevale. I laterizi utilizzati per la costruzione e visibili nelle arcate sono di buona fattura, con impasto omogeneo privo di impurità e perfettamente cotti in fornace. Questo particolare lascia supporre la costruzione a partire dai secoli XII e XIII, non prima.
E’ assai probabile che fossero conosciute, come afferma Dilvo Lotti in “San Miniato nel Tempo”, fin dall’epoca etrusca. La struttura non è sicuramente così antica, almeno non nelle forme e nei materiali, forse a causa di vari interventi succedutisi in epoca medioevale, anche se la presenza di tutto quel calcare sia fuori che dentro, lascia pensare a diversi secoli di continua sedimentazione del minerale.
Deposito di calcare esterno
Curioso è, senza dubbio, il nome. Perché “Fonti alle Fate”?
Nella sua novella Cornelio Rossi attribuisce tale denominazione alle due sorelle che vanno in soccorso del Ciccioni e del Mangiadori che si erano feriti durante le battaglia. Grazie all’acqua della sorgente i due si erano presto ristabiliti.
Ovviamente Cornelio Rossi ha lavorato molto con la fantasia, ma non possiamo escludere che l’ispirazione per il racconto non trovi fondamento nella tradizione popolare sanminiatese. Le “Fate” richiamano inevitabilmente al mondo magico e la stessa novella attribuisce all’acqua della fonte virtù miracolose. E’ possibile che l’acqua delle Fonti abbia poteri taumaturgici?
Rossano Nistri, nel suo articolo “Acque dei vivi, acque dei morti. Mitologie acquatiche attorno alle Fonti alle Fate di San Miniato” pubblicato nel Bollettino dell’Accademia degli Euteleti n. 76 del 2009, si pone il medesimo interrogativo. La risposta è negativa e a conferma di ciò riporta numerose non-testimonianze. Vale a dire che se tale potere taumaturgico esistesse veramente, doveva essere riportato nella narrativa scientifica e geografica. E invece nessuno si è mai occupato delle Fonti alle Fate, segno che tali acque non hanno interesse alcuno, se non per essere usate comunemente. Chi poteva occuparsene (come il Repetti nel suo Dizionario Geografico della Toscana, lo Schivardi nella guida alle acque minerali, il Jervis nel compendio di geologia positivista nel territorio italiano e il chimico sanminiatese Gioacchino Taddei autore di un importante studio sulla fonte presso Santa Gonda) non lo ha fatto. Quindi, escludendo il cosiddetto “effetto placebo”, le Fonti alle Fate non possiedono alcun potere taumaturgico. Sono invece molto ricche di calcio!
La vasca laterale di destra
Lo stesso Rossano Nistri fa poi notare come vi sia un pullulare in Toscana di posti con nomi legati alle “Fate”, alle “Ninfe” e simili. Tanto per citarne alcune, fra le più conosciute, ricordiamo le “Fonti alle Fate” di Poggibonsi, ma toponimi simili vi sono anche a Certaldo, Gambassi, Fiesole, Cetona, Pienza, Montepulciano e in molti altri comuni. Il minimo comune denominatore di tutte queste località va ricercato indubbiamente nel substrato culturale delle popolazioni che abitavano la Toscana. Una sorta di riverbero delle tradizioni pagane, ma anche la necessità di dare un nome e una forma comprensibile di quello che i latini chiamavano “genius loci”, che un po’ riduttivamente potremmo tradurre in “spirito del luogo”.
Credo che Rossano Nistri nel sopracitato articolo colga molto bene questo aspetto, e per questo riportiamo le sue stesse parole: “genius loci, lo spirito di quella terra, che per sopravvivere, diviene divinità sotterranea, perché esso stesso è acqua che scaturisce dalle viscere della terra, ma anche perché subisce il ribaltamento della demonizzazione, all’affarmarsi di una nuova divinità, essendo immortale…”.
Ancora oggi questo spirito è avvertibile. Noi contemporanei “razionalisti”, per definire un’emozione del genere, possiamo ricorrere al termine “suggestione”; suggestione per un sito collocato nel bel mezzo di quello che ha tutto l’aria di essere un lucus, un bosco sacro, anche se più per tradizione popolare che nella realtà dei fatti. Come si diceva nell’articolo LUOGO META’-FISICO, tale potere è da ricercarsi, forse, nella grandissima distanza psicologica delle Fonti. Ci arriva solo chi si mette alla ricerca, altrimenti nessuno vi capiterà mai, nemmeno per sbaglio. E proprio questo porsi alla ricerca che genera nell’animo quel sapore mistico evocato dallo stesso termine delle “Fate”.
La sorgente vera e propria,
dove con pochissima luce, vi cresce una pianta acquatica
Significativa è la memoria del luogo narrata da Don Luciano Marrucci. Egli ricorda che le Fonti alle Fate era il luogo dove si poteva stare un po’ in solitudine, da soli o con pochi amici. Per studiare o anche solo per riposare, sicuramente per sognare. Tale circostanza è confermata anche da Rossano Nistri.
Immersa fra robinie e lecci, lì, sola, come nei secoli passati. Un luogo fatto per essere cercato. E trovato solo da chi la rincorre per davvero, da chi cerca anche solo pochi minuti di serena armonia.
L'articolo è stato redatto grazie alle ricerche in situ di Rita Costagli insieme alla piccola Matilde, vere apripista alle spedizioni successive, alle quali hanno partecipato Francesco Fisoni, Gionata Giglioli, Luciano Marrucci e Francesco Fiumalbi.
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RispondiEliminaTrovo molto appropriato il ragionamento iniziale sui termini storici e architettonici della struttura delle fonti e sulla loro probabile funzione in epoca medievale. Purtroppo, il prof. Lotti che è stato l'unico a prestare una qualche attenzione al "luogo" della nostra origine culturale, non brillava quanto a metodo di ricerca ed è sicuramente inciampato in qualche approssimazione. Mi auguro che continuando a parlarne si possa giungere a rivitalizzare e a rivalorizzare il sito.
Posso aggiungere alle memorie di don Luciano, di essere stato inviato più volte dalla mia mamma, negli anni '50, a riempire alle fonti fiaschi e bottiglie quando c'erano problemi alla fontanella (la "pompina") di acqua potabile che era in piazza del popolo, accanto alle "scarelle" (dove andavamo a fare rifornimento, perché non avevamo l'acqua in casa). L'acqua delle fonti alle fate veniva ritenuta migliore di quella che si prendeva alla pompa sul muraglione delle carceri sulla prima curva dell'allora via della Stazione (oggi Aldo Moro). Le fonti erano anche una delle mete preferite nelle galoppate per il bosco da parte della banda della piazza (del Popolo), si cui ero uno dei componenti più piccoli...
Rossano Nistri
Complimenti per questo pezzo; devo dire che ho appreso altre cose rispetto a quelle che giudicavo assodate. Il corredo fotografico, anche se ridotto a poche immagini, molto appropriato. Dovrei aggiungere a quello che ha detto l'amico Nistri che nell'Almanacco di San Miniato del 2000 riportai alcune note scritte almeno 15 anni prima. Ricordi ginnasiali, ma anche alcuni riferimenti letterari come ciò che leggiamo nella "Bruna di Poggighisi" e credo di aver configurato il boschetto circostante come il lucus pagano, bosco sacro, per lo più dedicato alla figura del dio Pan; ma questa è una suggestione, ha ragione Rossano che, nel Bollettino degli Euteleti, trova una difficile verifica,dato che non possediamo documenti che la sostengano.
RispondiEliminaLuciano Marrucci