di
Giancarlo Pertici
D'INVERNO
A SAN MINIATO...
L'anno correva che era il 55, e quando finì prese il 56.
L'anno correva che era il 55, e quando finì prese il 56.
Fu
proprio in quel passaggio che capii perché, quando avevo imparato
che anno era, me lo cambiavano!
Quando
in pieno inverno battono le 11, minuto più minuto meno, pochi
lampioni restano accesi. I più vengono spenti, non tutti assieme, ma
a gruppi, partendo da Piazza de' Polli fino all'Ospedale.
Per
chi ancora non è rientrato da veglia è un viaggio alla cieca, quasi
a tasto, orientandosi dal bagliore del lampione più vicino, verso la
direzione giusta. Musolino, va proprio a tasto. Se esce da Pietro,
conta le porte. Prima quella di casa di Rita, poi quella di Maria,
quindi quella di Primetta... infine quella giusta: Livia già a letto
da un pezzo. Tarcisio invece mira lontano, al lampione d'angolo di
Piazzetta Pancole. Luce tremolante ma ben distinguibile di notte, che
illumina proprio l'uscio di casa sua. Per coloro che si attardano al
Circolino dello Scioa, sia che vadano verso Piazza dei Polli o verso
l'Ospedale oramai è un viaggio a memoria. In aiuto di chi va verso
l'Ospedale e anche oltre, come Vittorio Capecchi, è anche l'olfatto
a segnare il percorso. Appena passato casa Taviani, da poco
ricostruita, stesso lato, una casa semidiroccata ma di cui la guerra
ha risparmiato una porzione, dove abita Quirina al primo piano, e
Adriana nel seminterrato. E davanti una sorte di cortile che, di
notte al buio, le macerie ammucchiate ai lati, attira come mosche il
popolo dei ritardatari i quali, anche per via del freddo, a vescica
piena, non trovano di meglio dove scaricarla.
È
l'odore che guida e fa la spia quando sei al cancello di casa
Bucalossi, quando transiti per Piazzetta di Pancole ...tutta un
effluvio, innanzi al cancellino del Ricovero e a quello dell'orto
Presenti. Se contro i cani, che liberamente scorrazzano ogni dove,
una mistura a base di zolfo, ad imbrattare gli stipiti dei portoni,
risulta efficace. Contro il popolo dei ritardatari notturni e contro
i loro bisogni incontenibili non c'è difesa apparente.
Ma
c'è anche chi rientra presto da veglia. Eliseo, sacrestano alla
Chiesa di San Paolo, che deve aprire la Chiesa e annunciare la prima
messa, al suono delle campane, ogni mattina. Per il Moncalvini e il
suo cognato, Natale, spesso è solo il tempo di un caffè, giusto per
dire di essere usciti a veglia. Loro, la cui mattina, comincia quando
è ancora buio.
Il
Nuti, che rincasa appena dopo due o tre scozzi a carte, cavalluccio
in tasca per il "Puttero". E' così che mi chiama il mi'
nonno. Quando arriva in camera, la luce accesa sul comodino a tenermi
compagnia, io sono già addormentato da un pezzo. Con i miei sette
anni scarsi, a volte non vedo rientrare neanche mio padre dal lavoro,
che già dormo. Mentre recita le sue devozioni e si spoglia, lui quel
cavalluccio me lo appoggia sul comodino, come premio se mi sveglio.
Poi si infila in quel letto da una piazza e mezzo, con dentro ancora
il "trabiccolo": scaldaletto in legno alimentato da un
cardano pieno di brace. E' Eda, mia mamma, che tutte le sere,
appena dopo cena, riempie il cardano di brace e l'appende dentro il
"trabiccolo" messo lì nel mezzo del letto, mentre lo copre
con un telo di fortuna ad evitare abbanfature al lenzuolo di sopra. E
quel cardano è uguale a quello che mia nonna Livia, quando è in
casa, si tiene sotto i piedi, mentre nel canto del fuoco fa la
maglia. Sempre, ogni giorno, ogni momento libero, lei fa la maglia. O
è un maglione per qualcuno di casa - a turno tocca a tutti - oppure
sono solette per farne calzettoni. Mi ricordo sempre quando mi fece
solette e calzettoni l'anno che entrai in seminario e per cinque anni
non mi ha mai lasciato senza, seguendo tutte le fasi della mia
crescita.
Negli
anni in cui per me inizia la scuola, la tramontana trova sbocchi
inconsueti, nel vuoto lasciato dalle case vittime della guerra, ad
alimentare freddo e geloni. Accanto all'appalto del Giorgi, prima
della Ragnaia del Migliorati, appena un brandello di muro rimasto
ritto, privo di qualsiasi traccia di intonaco, quasi a voler
nascondere quelle macerie oramai invase da roghi ed erbacce. Di
giorno noi bambini, di passaggio verso Piazza dell'Ospedale, lì ci
soffermiamo, ci si mette ad origliare, tra le fessure di quella porta
rimasta in piedi tra gli stipiti e la soglia consunta di pietra, con
la complicità delle macerie. Oltre a questa, c'è un altro vuoto,
cicatrice non rimarginata della guerra, tra la bottega del Dainelli e
la casa del Cecconi a lasciare intravedere le montagne in lontananza
cariche di neve. Rimosse le macerie e scavate le fondamenta. Muratori
all'opera a tirare piani, a preparare calcina, di quella bianca,
zolle spente nell'acqua a murare la casa del Latini. E noi bambini
curiosi a girottolare sempre lì intorno, specie quando la sera i
muratori se ne vanno a casa lasciando libero il cantiere. E in quella
buca dove spengono la calcina, un bel giorno ci finisco dentro
insieme a Berto, per un bagno fuori stagione e fuori programma, e per
finire a sculaccioni a letto e senza cena.
È
probabilmente in novembre, il ricordo vivo di un giorno freddo
alimentato da un forte vento di tramontana e di quel pomeriggio
passato con nonno Nuti, laggiù nell'orto, a "pomatta" al
riparo dal vento, a seminare baccelli e piselli. E di quelle fette di
pane, olio e sale, sottili sottili che Corinna, seduti attorno al
braciere fumante posto lì, sotto il tavolo, mi prepara per merenda,
una fetta tira l'altra, fino all'improvvisa chiamata di mia madre.
"Ti vuole Nonna Livia". Commissione semplice
"Copriti bene che fa freddo, berretto, sciarpa e guanti. Vai
dal Giorgi e gli dici: la mi' nonna vuole un chilo di sale fino e un
chilo di sale grosso...e il resto!"
E nel dire così, mi allunga una banconota da 5000 lire, tutta
dispiegata in lunghezza e larghezza. Me la pone sul palmo della mano
destra, difesa dal guanto di lana a un solo dito, e me lo fa
rinserrare stretto con il pollice. Le guardo quelle 5000 lire che
sembrano più un asciughino verde oliva che una banconota. Prendo la
porta, scendo gli scalini che intravedo a malapena, gli occhi
socchiusi a difesa dalla tramontana sferzante, il sole appena
tramontato. Brividi improvvisi di freddo che si impossessano dei
polpacci, del naso, delle gote, mentre, appena tocco le lastre,
spicco la corsa e attraverso la strada verso il riparo offerto dalla
bottega di' Dainelli. Quattro salti e sono dal Giorgi. Appoggiato al
bancone, un respiro profondo, gli occhi fissi sul Giorgi di là dal
bancone, faccio: "Ha detto la mi' nonna che vuole un chilo di
sale fino e un chilo di sale grosso... e il resto!".
Tutto
d'un fiato... mentre allungo la mano destra, stretta a pugno, e la
batto sul ripiano del tavolo, nel confermare quanto detto, e
aprendola per rilasciare... quella banconota da 5000 lire... che non
c'è più! Le 5000 lire sono sparite! Terrore allo stato puro.
Lacrime agli occhi, ritorno da nonna Livia. Una settimana di lavoro
perduta nel vento. Arrivano tutti in soccorso a cercare
l'impossibile, zia Berta, zia Pia e la mia mamma, per ultimo anche
Nonno Nuti. Tutti alla ricerca disperata, nella penombra di quel
tardo pomeriggio, nei cantoni, nei portoni e negli anditi aperti,
sotto il Ponte, tra le cassette della frutta di Pietro in mostra,
verso la Ragnaia del Migliorati seguendo quella linea ideale che il
vento di tramontana sembra disegnare. Ma il mutare dei venti e i
mulinelli, tra e dentro le mura, hanno quasi danzato con quella
banconota, facendola probabilmente volteggiare in aria prima in una
direzione, poi in un altra, senza, forse, farle mai toccare terra,
come per gioco.
Gioco
piacevole condotto alla sorte là, dove nessuno può pensare sia
andata a finire, in quell'innaturale apertura da dove il vento di
tramontana penetra con maggiore forza, e dove nessuno può immaginare
sia andata, quasi "controvento": la casa in costruzione del
maestro Latini. Nessuno che la possa vedere alla luce residua della
sera; prigioniera, quasi un vessillo, di un'asta innaturale infissa
nel cemento. Così può apparire quel regolo di legno, ancorato al
piano di cemento, con sulla cima, proprio quelle 5000 lire tenute in
bilico dal vento di tramontana. È solo un suono indefinito, come
fremito di una bandiera sbattuta dal vento o leggero battito d'ali,
ad attirare l'attenzione in quel cantiere aperto. Non ricordo chi ci
arriva per prima: Pia o Berta. Dalle grida felici e dalle risate
capisco che qualcosa deve essere successo, ma mai mi sarei aspettato
il ritrovamento delle 5000 lire. Un bel risparmio per quella serata,
anche di sculaccioni.
Sculaccioni
che mia madre sembrava tenere in serbo per altra data fatidica.
Doveva essere fine gennaio o primi febbraio. L'anno, quello appena
successivo il '56. Sculaccioni, ripensandoci ora da grande, che forse
meritavo tutti, pur tra molte attenuanti. Tutto ebbe origine da quel
mese di gennaio del '56 particolarmente freddo, di cui conservo solo
alcuni brandelli di memoria, ravvivati nel tempo dai racconti di mio
nonno Nuti e di mia mamma. Siamo alla fine di gennaio e la scuola è
ripresa regolarmente dopo la Befana. Io in seconda elementare col
maestro Catarcioni, non dico contento, quanto piuttosto "rassegnato"
a quella sorte, dalla quale nel pomeriggio cerco di evadere a modo
mio. Dalle monache di San Paolo o nell'orto con Nonno Nuti. Vive mi
sono rimaste impresse le immagini di quella mattina, che, richiamato
a gran voce da Nonno Nuti, mi sveglio ben prima del solito, mi vesto
e scendo con lui per prendere il latte con il pane abbrustolito, come
sempre. Ma la sorpresa vera è la neve che ricopre tutto l'orto,
tutto bianco verso Scacciapuce che si riconosce a malapena per via
dei cipressi, come pure Pian delle Fornaci. Quando mi affaccio in
strada è meraviglia e stupore di fronte a il mi' babbo, a nonno
Musolino, a zio Alberto, tutti a spalare neve. Appena aperta una
breccia per andare da Olimpia. Piccoli passagi da porta a porta,
verso la Bottega di Pietro fin verso il forno di Nello. Anche i
vecchi del ricovero, quelli più giovani con pale e badili ad
accostare la neve ai muri delle case. Ma tanta neve dappertutto, e in
piazza è pieno di bambini a giocare e a fare pupazzi di neve. Per me
è la prima volta. E a buio, bagnato come un pucino, la mi' mamma mi
cambia tutto e mi mette a letto appena cenato. Giorni probabilmente
bellissimi di cui mi è rimasta l'ombra di un ricordo, quasi la
certezza che la scuola sia rimasta chiusa per diverse settimane:
impossibile muoversi su e giù per San Miniato. Ma la voglia di
divertirsi e la confidenza acquisita con la neve mettono le ali,
anche quelle della fantasia, a noi bambini di San Miniato.
Quando
riprende la scuola, il percorso è a zig zag. Da Piazza dei Polli, su
per Sant'Andrea fino al Bagagli e a scuola, ma in pochi. Mancano
quelli che stanno in Gargozzi e dalle parti dei Cappuccini, tutti
quelli della Borghigiana, ma anche chi abita in San Lorenzo al
Nocicchio. Orario ridotto. Forse addirittura a classi unificate
insieme alle femmine. Ma è solo un vago ricordo, mentre è vivido il
ricordo della campana a segnare la fine delle lezioni, e l'ordine
perentorio della mamma "Subito a casa!".
Forse il primo giorno, seguo a puntino le indicazioni. Per tornare
faccio il giro da Sant'Andrea per piazza dei Polli e da lì a casa, a
volte in compagnia a volte da solo. Ma il giorno dopo in cima alla
salita del Bagagli mi sento all'improvviso come Pinocchio nel paese
del Balocchi.
Nel
ruolo di Lucignolo, anche senza aprire bocca, c'è un tale,
"ripetente incallito" che fa l'avviamento, che, con una
vecchia cartella, la sistema all'ultima fila di lastre prima della
discesa. Vi si siede sopra, le gambe larghe, le mani a spingere e a
fare da timone e giù sopra quello strato uniforme di neve giacciata
che nessuno ha calpestato, fino in fondo, fino a quando sparisce alla
vista scomparendo sulla destra nel tentativo riuscito di scansare
"Canapone", la statua piazzata là nel mezzo. Tentazione
irresistibile alla quale qualcuno abbocca, cartella in terra e giù
veloce a imparare il giusto equilibrio dopo cadute, scivoloni di
lato, ribaltamenti di schiena e gli immancabili capitomboli quando i
piedi toccano terra, o meglio la neve. Cappotto con sotto il
grembiule, berretto di lana e guanti, è la mia prima discesa, quasi
tutto sul groppone, cartella per conto suo, fino in fondo per un
atterraggio morbido sulle lastre libere davanti a Canapone, indenne
anche se tutto inzuppato. La prossima verrà meglio! E su per
Sant'Andrea per arrivare di nuovo in cima al Bagagli per una nuova
discesa. Un po' alla volta si impara! Sempre meglio, l'ultima arrivo
indenne a scansare anche Canapone per planare fin quasi dal
Micheletti, che oramai sono fradicio dentro e fuori. Non so neppure
che ore siano e non solo perché non ho e non conosco l'orologio.
Quando arriva mia mamma, dopo l'ennesima planata nei pressi del
Micheletti, con quelle mani secche e con tanti sculaccioni quanti ne
ha tenuti in serbo, mi accompagna fino a casa, qualcuno in avanzo
anche a culo ignudo mentre mi cambia, nonostante i tentativi a
difesa, andati a vuoto, da parte di Nonno Nuti. A letto e senza cena.
Nei
giorni successivi imparo a togliermi Cappotto e grembiule e lasciarlo
sul muretto di Santo Stefano, per una o due sole discese prima di
ritornare a casa, fino all'ultimo giorno quando, perso il conto dei
giri, mia madre mi viene a riprendere, stessi mezzi senza possibilità
di repliche, quella notte piove a lavare neve e sogni.
La
Valle di Gargozzi innevata
Foto
di Giorgio Giolli, per gentile disponibilità
Bravo Giancarlo mi ricordo bene quella nevicata. Ricordo anche che dalla finesta vidi Rino di' Perondi (Il Canuccio) si era messo gli sci e da S.Caterina scendeva fino alla Bottega.
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